Un compito per l’intera società

Integrazione - Presentato a fine novembre il Programma cantonale per i prossimi quattro anni. Ne parliamo con il Delegato all’integrazione degli stranieri Attilio Cometta
/ 08.01.2018
di Fabio Dozio

Se avete un appartamento da affittare, lo date più volentieri a un uomo di colore (nero, giallo, rosso) o a un indigeno, posto che siano entrambi incensurati, solvibili e di condizione economica simile?

Il colore della pelle è ancora un fattore discriminante. La polizia di Zurigo ha adottato l’autunno scorso un nuovo protocollo per impedire agli agenti di essere condizionati dal colore della pelle (racial profiling), o da altre caratteristiche estetiche, quando devono esercitare i loro controlli in strada. Insomma, è inutile far finta di nulla, il razzismo, o sottili e striscianti forme di discriminazione, è una costante di ogni società, anche se non sempre facile da definire.

«Il Ticino non è razzista – afferma il delegato all’integrazione degli stranieri Attilio Cometta – è un cantone che sa essere generoso e accogliente, ma a volte si ha paura. Tendiamo a chiuderci quando non conosciamo, poi quando si conosce apriamo le porte. D’altra parte anche in Svizzera ci sono frizioni, il Röstigraben è una realtà, la storia non è tanto diversa».

Il Ticino è stato un paese di emigrazione, dalla metà dell’Ottocento ai primi anni del Novecento, ma anche d’immigrazione, da sempre. In questi ultimi anni la geografia della popolazione è cambiata radicalmente. Fino agli anni Cinquanta erano soprattutto gli italiani che arrivavano da noi per lavorare, poi si sono aggiunti gli spagnoli, i portoghesi, gli jugoslavi, i turchi. Da qualche anno siamo confrontati con un’immigrazione da paesi terzi, extraeuropei, persone che cercano asilo in Svizzera. «Si continua a parlare di crisi, quando si discute di rifugiati – ci dice Attilio Cometta –. Ma non bisogna più parlare di crisi: è un dato di fatto, è strutturale, sarà sempre così nel futuro. Bisogna accettare la situazione e lavorare per promuovere l’integrazione di tutte le persone che vivono da noi. Il Ticino è cambiato molto. Una volta questo Ufficio non esisteva, non c’erano gli stranieri che ci sono oggi. E quindi anche l’atteggiamento della popolazione è cambiato. Le diversità possono spaventare, non si tratta di razzismo, ma anche solo di disturbi banali. Magari danno fastidio gli odori di una cucina esotica, oppure l’alto volume della musica dei vicini di casa. Comunque più del 50% della popolazione ha un approccio positivo nei confronti dell’integrazione. In Svizzera abbiamo un numero consistente di stranieri, ma ce la caviamo bene».

In Ticino gli abitanti, a fine 2016, erano 354’375, di cui 99’547 stranieri, pari al 28,1%. I rifugiati accolti erano 1195, mentre i richiedenti asilo 414.

I maggiori problemi d’integrazione sono dati da chi cerca asilo nel nostro Paese. Un fenomeno recente è quello dei minorenni non accompagnati, ragazzi che frequentano le scuole dell’obbligo e che poi devono essere indirizzati verso una formazione professionale.

La Confederazione e il Cantone attuano le misure specifiche di promozione nell’ambito di programmi di integrazione cantonali (PIC) quadriennali. Berna mette a disposizione del Cantone fino a 1,5 milioni di franchi all’anno per l’integrazione degli stranieri. Inoltre il Cantone riceve un assegno di seimila franchi per ogni rifugiato.

L’ordinanza federale sugli stranieri stabilisce alcuni capisaldi: «l’obiettivo dell’integrazione è di garantire agli stranieri pari opportunità di partecipazione alla società svizzera», inoltre «l’integrazione avviene in primo luogo mediante le strutture ordinarie quali la scuola, la formazione professionale, il mondo del lavoro e le strutture di sicurezza sociale e della sanità pubblica».

«L’integrazione deve essere bilaterale – sostiene Cometta – Se vieni da fuori hai il dovere di integrarti, ma non puoi essere l’unico. Deve esserci una disponibilità anche da parte di chi ti accoglie. Bisogna creare opportunità. Conoscersi per integrarsi. Se io sono cittadino svizzero da dieci generazioni offro allo straniero la possibilità di conoscerci. Lo saluto se lo incontro, gli chiedo se ha bisogno di aiuto. Nel mondo del lavoro non è sempre facile».

Le associazioni degli stranieri sono un partner prezioso per le autorità. Il secondo Programma d’integrazione cantonale, presentato l’autunno scorso, prevede di sostenere le Comunità mettendo a disposizione sportelli d’informazione e anche due sale per le riunioni. Verrà sostenuto e promosso anche il volontariato, creando moduli di formazione per i volontari.

Il processo d’integrazione definito dal PIC 2 si fonda su due fasi principali: accoglienza e socializzazione, soggiorno e integrazione. Nella prima fase si tratta di imparare la lingua e le competenze di base, conoscenze del paese che permettano un inserimento sociale, poi si procede nella seconda fase, con una formazione professionale che dovrebbe garantire un posto di lavoro.

Nei prossimi anni più che in passato, si punterà sui Comuni, come spiega Attilio Cometta: «Chiediamo ai Comuni di favorire al meglio l’integrazione dei loro cittadini. L’accoglienza è la cosa più importante. Per esempio si può organizzare un incontro con i nuovi arrivati, come si fa con i diciottenni, invitare a visitare i paesi, presentare le autorità. Poi bisogna migliorare le informazioni, offrendo sul sito del Comune spiegazioni in diverse lingue, le lettere del controllo abitanti devono essere tradotte. Per queste mansioni noi possiamo aiutare finanziariamente i Comuni. E, ancora, seguire le nuove famiglie che arrivano, cercare di conoscerle, aiutarle per quanto riguarda le scuole, i contatti con gli operatori sociali, la sanità. Tanti Comuni mi dicono che non hanno le competenze e questo è un tema su cui lavoriamo. Formeremo, grazie all’Ufficio della formazione continua, lo specialista per l’emigrazione che potrà occuparsi di queste incombenze».

Istruzione, formazione, lavoro, punti cardini per promuovere l’integrazione. Da quest’anno la Divisione della formazione professionale del DECS assume il coordinamento degli interventi formativi nell’ambito dell’integrazione. In particolare si prevede di coinvolgere 150 giovani adulti migranti nei prossimi quattro anni per agevolarne l’inserimento nelle strutture ordinarie della formazione, con apprendistati mirati che permettano loro di acquisire una qualifica e l’inserimento nel mondo del lavoro. «La nostra sfida – precisa Cometta – è individuare le professioni dove c’è domanda. Non è sempre facile, bisogna superare le discriminazioni e ottenere la disponibilità dei datori di lavoro. Bisogna forse anche inventare ruoli e funzioni che possano essere adatti a questa tipologia di stranieri. Ci sono già alcuni progetti pilota interessanti per esempio alla Clinica Luganese e alla Casa del popolo a Bellinzona. È un investimento impegnativo, ma ogni persona sistemata è un successo. Bisogna sfatare la leggenda che il rifugiato non ha voglia di lavorare, c’è chi ne approfitta, ma il vero problema è la mancanza di competenze. Altro tema è la concorrenza. Se si offrono ai rifugiati lavori che possono essere assunti dai locali, diventa un problema e si possono creare attriti».

Nei prossimi quattro anni, con il PIC 2, si intende dare una spinta alla promozione dell’integrazione. Maggiore collaborazione interdipartimentale (Istituzioni, Educazione, Sanità e socialità) e coinvolgimento dei Comuni. Il delegato per l’integrazione incontrerà le autorità di tutti i Comuni ticinesi. Bisogna cominciare dal basso, dai luoghi dove gli stranieri vivono. «In prospettiva – conclude Attilio Cometta – bisogna far sì che il tema dell’integrazione non sia un problema, ma diventi un aspetto della vita di tutti i giorni, non si dovrebbe neanche più parlarne. Tutti dovrebbero contribuire a far meglio ed essere accoglienti. I programmi d’integrazione non devono durare all’infinito. A un certo punto la società deve riuscire ad accettare gli stranieri in modo autonomo e naturale».