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Un allarme dal Polo Nord

Surriscaldamento globale - Le calotte di ghiaccio polare reagiscono troppo rapidamente ai cambiamenti climatici con conseguenze catastrofiche
/ 02.11.2020
di Loris Fedele

Ce ne siamo accorti tutti, l’estate trascorsa è stata caldissima e sicuramente oltre la norma. A suffragare le nostre impressioni sul caldo torrido sono arrivati i dati scientifici, che destano qualche preoccupazione. Perché non è successo solo da noi, che magari abbiamo approfittato di giornate interamente soleggiate per goderci i laghi o le escursioni in montagna, ma l’ondata di caldo ha colpito pesantemente le zone polari, in particolare l’Artico. 

Secondo il «Servizio Copernicus sul cambiamento climatico» l’emisfero nord ha registrato il luglio più caldo sul pianeta da quando sono cominciate le misurazioni. Si è superata di mezzo grado la temperatura media del periodo 1981-2010. In giugno oltre il Circolo Polare Artico in una città russa si è raggiunta la sbalorditiva temperatura di 38°C. L’11 agosto, nell’Artico canadese, a Nunavut, alla latitudine di 80 gradi nord, una stazione di misurazione specializzata ha marcato 21,9°C, enorme, se si considera che si trovi quasi al polo nord. 

Questi dati sono stati riportati in un rapporto divulgato dall’Agenzia Spaziale Europea (Esa), che gestisce i satelliti di osservazione terrestre del programma Copernicus. Sono i famosi Sentinel che, come dice il nome, fanno la guardia alla Terra e seguono i cambiamenti climatici in atto. Perché c’è di che preoccuparsi? È presto detto. Sebbene le ondate di caldo non siano rare nell’Artico, le temperature superiori alla media di quest’anno, con la loro durata prolungata, hanno creato problemi immediati e, in prospettiva, possono portare conseguenze devastanti per il resto del mondo. 

Il guaio immediato: una serie di incendi boschivi nel Circolo Polare Artico, in particolare nella regione più a nord-est della Russia, testimoniati e seguiti in giugno dal satellite Sentinel-3. I fumi hanno rilasciato una vasta gamma di inquinanti tra cui il monossido di carbonio e l’ossido di azoto. Si stima che nel solo mese di giugno quegli incendi abbiano emesso l’equivalente di 56 milioni di tonnellate di anidride carbonica. La loro influenza sull’irraggiamento e sulle nuvole, e quindi sul clima regionale e globale, è risultato evidente. Poi, oltre al danno immediato esiste, come detto, un danno in prospettiva futura: l’ondata di caldo artico ha contribuito e contribuisce allo scioglimento del permafrost. Il terreno permanentemente ghiacciato, appena sotto la superficie, copre circa un quarto del territorio dell’emisfero settentrionale. 

Il permafrost artico contiene grandi quantità di carbonio organico e di materiale frutto della decomposizione di piante morte. Quando si scioglie rilascia nell’atmosfera metano e anidride carbonica, alimentando così l’effetto serra. Ciò provoca un ulteriore riscaldamento e un conseguente scioglimento del permafrost, in un preoccupante circolo vizioso. 

Dagli anni Ottanta uno Speciale Gruppo Intergovernativo sui cambiamenti climatici segue il fenomeno che quest’anno ha registrato livelli record. Poiché i satelliti non possono misurare direttamente il permafrost, il programma dell’ESA ha combinato i dati satellitari della temperatura con misurazioni effettuate al suolo in punti diversi. L’estensione dello scioglimento artico è giudicata allarmante. L’ondata di caldo ha anche fatto accelerare il ritiro del ghiaccio marino lungo la costa artica siberiana. La tempistica dello scioglimento appare cambiata rispetto agli anni passati. Questo anno, complice una primavera eccezionalmente calda, il ritiro dei ghiacci è cominciato un mese prima. L’estensione del ghiaccio marino è risultata uguale al minimo storico registrato nel 2012. 

Un allarme a questo proposito è stato lanciato dagli scienziati che hanno partecipato alla spedizione scientifica MOSAIC (acronimo inglese che tradotto suona come Osservatorio multimediale itinerante per lo studio del clima artico), promossa dall’Istituto tedesco Alfred Wegener. Il 12 ottobre scorso la loro nave rompighiaccio Polarstern ha fatto rientro nel porto di Bremerhaven salutata con gioia dalla folla. Aveva trascorso quasi 13 mesi sulla banchisa ghiacciata del polo Nord, al largo delle coste siberiane. Alla MOSAIC hanno partecipato 600 scienziati di 20 Paesi: tra loro anche ricercatori svizzeri.

Il capo missione Markus Rex ha detto di aver assistito «all’agonia dell’Oceano», con grandi estensioni di mare senza ghiaccio oppure con lastroni sottili, fragili e molto sciolti. La spedizione ha fissato sulla calotta ghiacciata quattro stazioni di misurazione e poi la Polarstern, dopo essersi volontariamente incagliata, si è lasciata trasportare alla deriva dalle correnti marine, sempre eseguendo rilievi e misurazioni su parametri significativi per capire l’intero ecosistema polare. In un anno ha percorso «zigzagando» 3400 km.

Le osservazioni erano assistite da immagini satellitari americane, i rifornimenti dal cielo e dal mare supportati da Russia, Cina e Germania. Gli scienziati ci dicono che ciò che succede nell’Artico è un indicatore che ci dà testimonianza e messaggi precisi sul cambiamento climatico e gli impatti globali. Tutto è interconnesso e persino quello che succede lontano da noi finisce per toccarci da vicino. «Se va avanti così e non si interviene in qualche modo a livello planetario», ha commentato l’esperto dell’ESA Mark R. Drinkwater, «gli impatti globali provenienti dall’Artico lasceranno segni indelebili sul cambiamento climatico. Una Europa “verde” a basse emissioni di biossido di carbonio da sola non sarà sufficiente per combattere gli effetti del cambiamento climatico». 

Appare chiara la necessità di un’azione per il clima concertata in tutto il mondo. La scienza lo dice da tempo, come da tempo si occupa dello scioglimento di tutti i ghiacci terrestri. Infatti, solo per parlare delle osservazioni satellitari gestite dall’Europa, da 30 anni si tengono d’occhio i ghiacci e le mutazioni che subiscono. Non solo nell’Artico ma anche in Groenlandia e in Antartide, dove il monitoraggio sistematico ha mostrato una perdita di ghiaccio delle calotte pari a 6,4 trilioni di tonnellate nel periodo dal 1992 al 2017. 

I dati sono il frutto delle osservazioni dei satelliti ERS-1, ERS-2, Envisat e soprattutto Cryosat e Sentinel-1, che si sono serviti di altimetri radar sempre più performanti. Ma anche l’egregio lavoro svolto dai satelliti Sentinel di Copernicus oggi non basta più. Per questo l’Agenzia Spaziale Europea sta preparando tre nuove missioni candidate ad alta priorità. In sigla si chiamano CRISTAL, ROSE-L e CIMR. Agiranno insieme ai Sentinel di prossima generazione e forniranno agli scienziati dati importanti per tracciare scenari attendibili sull’evoluzione dei fenomeni collegati allo scioglimento dei ghiacci polari.