Faggio corazzato lungo la «ramina» in Valle di Muggio (Paolo Crivelli/www.mevm.ch)

Storie di confine

Ha da poco riaperto la mostra Pezzi di frontiera al Museo etnografico della Valle di Muggio a Cabbio. Un’occasione stimolante per scoprire il confine come condizione umana
/ 25.04.2022
di Fabio Dozio

L’idea è nata guardando la «ramina», la rete metallica che segnava il confine tra Italia e Svizzera nel Mendrisiotto. Il termine è un ticinesismo, una parola che appartiene all’italiano regionale. Ma la gente di confine ha ben chiaro il significato di «ramina», (c)ostruzione che indicava la geografia e stimolava l’immaginario del confine. «Siamo partiti dal territorio. – ci racconta Graziella Corti, co-curatrice della mostra Pezzi di frontiera al Museo etnografico della Valle di Muggio (MEVM) – Nel corso di un’escursione in valle lungo le ramine arrugginite, reliquie che risalgono all’ultima guerra, ci è venuta l’idea di una mostra sul confine e sulla frontiera». Il Museo, nato nel 1980, occupa una vecchia e bella abitazione nel nucleo di Cabbio, casa Cantoni, sopra la strada cantonale e a pochi passi dalla chiesa dell’Ascensione. È piccolo e accogliente, uno scrigno che offre occasioni per conoscere il territorio, la storia della gente, la civiltà della valle e il suo patrimonio culturale.

La mostra permette di fare un viaggio attorno al tema del confine e della frontiera, partendo dal locale, la rete metallica e i vecchi cancelli che ancora sopravvivono, per allargare lo sguardo al globale. «La storia di questo confine, – ci dice Mark Bertogliati, curatore del MEVM – risale al 1500, con la prima testimonianza, la materializzazione del confine tra Liga Helvetica e Ducato di Milano. Poi nel 1752 c’è stato il trattato di Varese, che definì le competenze territoriali tra Lombardia e le prefetture di Lugano, Locarno e Mendrisio. La costruzione della rete metallica avvenne alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento e si creò così per la prima volta una barriera fisica. Si trattava di una misura fiscale, voluta dal governo italiano, per contrastare il contrabbando. Poi ci sono state le due guerre mondiali. Ognuna di queste fasi ha rappresentato uno spartiacque anche nell’immaginario degli abitanti. Prima della ramina il territorio non era definito, era caratterizzato da osmosi. La cultura era la stessa, gli scambi erano floridi e anche a livello di proprietà c’era chi aveva terre di qua o di là dall’attuale confine. L’attività agropastorale e gli alpeggi non avevano confini. Rimane un esempio, la comunità di Erbonne, in cima alla valle, dove si erano insediate le famiglie svizzere. In origine era un alpeggio e poi è diventato un villaggio. Lì si vede molto bene il legame con Scudellate, anche se ormai sono rimasti in tre gatti».

«È anche interessante sottolineare – precisa Corti – che la frontiera sancisce e definisce una separazione, ma è anche un momento di unione. In fondo il confine garantiva degli scambi. C’erano i contrabbandieri. Anche oggi la frontiera può diventare un momento di salvezza o di chiusura. Alcune caratteristiche che noi abbiamo individuato in valle, le possiamo ritrovare in altre situazioni su scala più grande nel mondo globalizzato».

Il contrabbando è uno dei protagonisti della mostra di Cabbio. Radicato da secoli nel territorio, si sviluppò soprattutto nei primi decenni del Novecento. Uno dei punti più frequentati dagli spalloni era la val della Crotta, sopra Bruzella. Lì i commercianti svizzeri di sigarette portavano le bricolle che passavano ai contrabbandieri italiani. «Convenivano ogni sera tra i cinquanta e i cento spalloni. – spiega lo storico Adriano Bazzocco – La circolazione di merci di frodo era molto intensa: nel 1950, ad esempio, furono dichiarati per l’esportazione per via indiretta al Posto doganale di Bruzella circa 45 mila tonnellate di sigarette al mese. A questo quantitativo va aggiunto quello, a noi ignoto, delle merci dichiarate ai Posti doganali di Sagno, Muggio e Scudellate». Interessante anche notare che durante la seconda guerra mondiale il contrabbando invertì direzione. Non più dalla Svizzera all’Italia, ma in senso inverso. Non più sigarette, caffè o tabacco, ma, soprattutto, riso. «Tra gennaio e ottobre del 1944 – precisa Bazzocco – sono confiscate in Ticino e Mesolcina 52 tonnellate di riso e redatti circa cinquemila verbali di interrogatorio, nel 1945 i sequestri aumentano a 115 tonnellate e i verbali a 9154».

Per tanti anni, tonnellate di merci sulle spalle dei contrabbandieri hanno caratterizzato l’economia della valle. Il fenomeno è andato riducendosi dopo la guerra e a metà degli anni Settanta è scomparso, complice la svalutazione della lira e l’apprezzamento del franco. Un fenomeno sociale ed economico, nato attorno al confine e ormai relegato nei libri di storia e nei musei.

«Il ruolo dei musei – sostiene Mark Bertogliati – è molto cambiato in questi ultimi anni. Si è passati dal compito di conservazione tipico fino agli anni Ottanta, che consisteva nel raccogliere testimonianze e oggetti significativi della civiltà rurale, a un museo che documenta anche il presente e le dinamiche sociali e culturali attuali. È importante che il museo sia in relazione con la popolazione e svolga un ruolo da incubatore, soprattutto in una valle. I musei etnografici ticinesi, che hanno sede nelle valli, svolgono un ruolo sociale, per creare comunità, attraverso il recupero delle tradizioni, ma anche grazie alla lettura dell’attualità».

In valle di Muggio non c’è più spopolamento. Da anni il numero dei residenti si è stabilizzato. Ci sono giovani che sono tornati sistemando le case dei nonni oppure nuove famiglie che hanno scelto di trasferirsi, soprattutto nei comuni della bassa valle, perché la qualità di vita è migliore e i prezzi degli alloggi più abbordabili.

Graziella Corti ci tiene a sottolineare che il museo deve rispondere a nuove esigenze. Per esempio, per andare incontro ai bisogni della popolazione è stata organizzata una colonia estiva diurna. «Il museo è un luogo dove non si propongono solo mostre, ma si cerca di creare legami con la popolazione, e non solo della valle. Per questo organizziamo attività che hanno lo scopo di invitare la gente a riflettere e a scoprire allargando lo sguardo. Cerchiamo di discutere anche sul senso del vivere oggi, e quello delle frontiere ci è sembrato un bellissimo tema. Abbiamo aperto la mostra due anni fa, proprio quando è scoppiato il Covid. Ci siamo detti che dovevamo esporre anche le mascherine, a modo loro simbolo di una frontiera. La pandemia ci ha messo di fronte al tema del confine come chiusura: cosa si chiude, come e per chi».

All’ultimo piano di Casa Cantoni, sede del MEVM, ci sono due gigantografie che rappresentano due sguardi. Occhi che interrogano il visitatore e che appartengono a due giovani stranieri, afgani giunti in Ticino qualche anno fa come minorenni non accompagnati. Bastano questi sguardi per far capire che il confine locale, come quelli degli Stati del mondo intero, contribuisce a definire un’alterità piuttosto che un’identità. Questa è una delle suggestioni della mostra, che non si ferma alla regione della valle di Muggio. Le fotografie di questi occhi sono di Stefano Spinelli, che ama definirsi fotografo di frontiera. «Stefano – dice Corti – sostiene che nell’occhio rimane una traccia dell’esperienza che la persona ha vissuto, un indizio di vita che può essere percepito».