La psicologa e psicoterapeuta Elena Scaffidi

Stare in ascolto di noi stessi

Psicologia – Obbligati a rimanere stanziali e ad assecondare tempi dilatati secondo la psicologa Elena Scaffidi durante queste festività dovremmo prenderci cura dei legami
/ 28.12.2020
di Alessandra Ostini Sutto

«Il fine del viaggiare è il viaggiare stesso e non l’arrivare», scriveva l’autore e giornalista italiano Tiziano Terzani, nel suo In Asia, una raccolta di articoli realizzati mentre faceva il corrispondente da questo continente. La citazione esprime bene il concetto del sostantivo Fernweh, il quale, allo stesso modo di altri termini della lingua tedesca non ha un’equivalente univoco in italiano, ma può essere tradotto con espressioni del tipo «nostalgia della lontananza»Come tante parole tedesche, anche Fernweh è il risultato dell’unione di due parti che vanno a comporre un significato terzo, nel caso specifico l’aggettivo fern (lontano) e il sostantivo Weh (dolore). «Dolore per la lontananza» che non è però quella dalla propria casa, ma il suo opposto, la nostalgia dell’altrove, che riflette il desiderio di abbandonare i luoghi della quotidianità, per aprirsi al mondo esterno e quindi ad esperienze nuove e sconosciute.

Un desiderio che si scontra, da un po’ di tempo a questa parte, con i timori legati al Covid 19 e le norme in vigore per contenere la pandemia, fattori che hanno reso l’andare lontano più difficile e meno scontato. «Sicuramente il viaggio per mete lontane non rientra nei progetti realizzabili nel breve periodo – afferma Elena Scaffidi, psicologa clinica e psicoterapeuta psicoanalitica, che svolge la propria professione privatamente a Lugano – le festività natalizie stanno mettendo a dura prova la nostra capacità di accettare la costrizione di non poterci spostare e, senza necessariamente pensarci in luoghi esotici, anche le riunioni allargate di famiglia e i brindisi con gli amici, che tradizionalmente contraddistinguono le ricorrenze di fine anno, devono essere limitati, se non evitati. Ciò richiede agli individui un grande sacrificio e genera in alcuni non poca frustrazione». La psicoterapeuta continua mettendo in evidenza il rovescio della medaglia, la possibilità cioè, essendo obbligati a rimanere stanziali e ad assecondare tempi e modi dilatati, di entrare nella dimensione, altrettanto affascinante, dello stare in ascolto di noi stessi, del lasciare emergere sentimenti ed emozioni che inconsciamente lasciamo al palo, affaccendati – e forse volutamente impegnati – in mille altre incombenze.

«In questo strano Capodanno sarà allora importante prendersi cura dei legami, che possono addirittura rinsaldarsi nella lontananza. Far sentire la nostra vicinanza, il nostro affetto, la nostalgia fa bene alla relazione. Proviamo a riscoprire la bellezza di una lettera, che si nutre dell’attesa della risposta e consente di scrivere ciò che a parole non avremmo mai detto e alla fantasia di intraprendere un viaggio meraviglioso», aggiunge Elena Scaffidi. «Per quel che riguarda i viaggi “veri”, documentari di ottima qualità e collegamenti online consentono di ovviare in parte alla impossibilità di recarsi altrove, se ci si riferisce, appunto, ad un altrove geografico, anche se mancherà, certo, la sensazione del nostro corpo in un luogo altro». Ma questa sensazione, la voglia cioè dell’altrove, connaturata al nostro essere, è vissuta da tutti allo stesso modo? «Essere in un luogo diverso dal nostro ambiente abituale è una sfida. Significa lasciare il certo per l’incerto, essere pronti ad accogliere l’imprevisto, a rientrare dal viaggio delusi rispetto alle aspettative. Significa comprendere chi è il compagno di viaggio ideale, non necessariamente il migliore amico che ci rassicura e sostiene nella quotidianità, significa essere guidati dalla curiosità della scoperta ed entrare in una dimensione onirica, che tanto assomiglia ad una piccola analisi personale. Nei momenti dove le sicurezze lasciano il posto al gusto della ricerca del nuovo e dell’inedito siamo veramente in viaggio e possiamo coglierne le opportunità di comprensione e sviluppo», spiega la psicoterapeuta, «non tutti però intendono il viaggio in questo modo. Per alcuni viaggiare significa tornare in un luogo conosciuto, che rimane uguale a sé stesso nonostante i destini del mondo, le vicissitudini personali, il Coronavirus: rassicura, conforta, dà la sensazione di non aver perso il controllo sugli eventi, e che tutto procede, tutto sommato, allo stesso modo».

Non a caso il viaggio è probabilmente la metafora più efficace utilizzata per parlare del proprio percorso interiore, oltre che per rappresentare la narrazione della propria vita. «In letteratura innumerevoli sono gli esempi che hanno utilizzato il viaggio come veicolo per parlare della possibilità di comprendere sé stessi attraverso il confronto con altri luoghi, altri volti, altre usanze che sollecitano le nostre credenze e le nostre certezze ad emergere dalla stereotipia per entrare in contatto con i nostri vissuti interiori e permettere il costituirsi di un nuovo pensiero – commenta Elena Scaffidi – il viaggio è una ricerca che parte dal desiderio di sapere e che, strada facendo, si nutre della consapevolezza che il bello sta proprio nel viaggiare e che la meta, paradossalmente, non è poi così importante, perché continuamente modificabile e riprogrammabile, per riprendere un concetto caro a Tiziano Terzani». Un esempio su tutti è quello di Ulisse, che nell’Odissea ha fatto del suo lunghissimo viaggio il mezzo per esaudire la sua curiosità, tanto che Dante lo accusa di «vana curiositas». Numerosi sono pure i personaggi storici mossi dalla propensione per la scoperta che alimentano, da sempre, la fantasia dell’uomo: Cristoforo Colombo che sfidò la vastità degli oceani, Frederick Cook l’Artico, gli astronauti dell’Apollo XI la luna, per non fare che alcuni esempi.

Tuttavia, anche l’esploratore più rude ha nel cuore un posto cui fare ritorno alla fine del viaggio. Riprendendo l’esempio del poema omerico, Ulisse, partito per una guerra in cui credeva poco, dopo ben dieci anni, compie un periplo del mondo conosciuto e sconosciuto mosso da una perenne nostalgia per la sua Itaca. A questo sentimento corrisponde nella lingua di Goethe il sostantivo Heimweh, dove Heim significa casa (non semplicemente il posto in cui si vive, ma il luogo degli affetti) e Weh, di nuovo, dolore. Così, Heimweh richiama alla mente il dolore che si prova quando si è lontani dalla propria casa, dalla propria famiglia, dai propri cari, mentre il meno comune Fernweh è l’esatto contrario, la nostalgia di fondo per il viaggio, la scoperta, la ricerca. Una «voglia di andare» che era cara al romanticismo tedesco: la figura del viandante solitario, mosso non tanto dalla meta quale obiettivo, ma piuttosto dall’inseguimento di un richiamo, si ritrova, per esempio, nella letteratura, con gli scritti di Johann Wolfgang Goethe, nella musica, con opere come la Wanderer-Fantasie di Franz Schubert e nella pittura, ambito nel quale un’opera particolarmente rappresentativa di questo tema è il Viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich.

Un’altra parola spesso accostata a Fernweh, è Wanderlust. Comparso nell’alto tedesco medio e prestato alla lingua inglese, il termine significa «voglia di camminare, viaggiare, vagabondare». I due sostantivi sono usati spesso nell’ambito della promozione turistica e si ritrovano non di rado sui social network, dove il viaggio e l’avventura – e le foto che li documentano – sono tra le tematiche predominanti. In psicologia, invece, si parla della «sindrome di Wanderlust» – o «malattia del viaggiatore» – che si manifesta con un irrefrenabile desiderio di partire alla ricerca di nuovi posti da vedere e nuove culture da conoscere e sfogare così le proprie insoddisfazioni. «Credo poco agli inquadramenti diagnostici rigidi – commenta a riguardo Elena Scaffidi – la voglia di partire, di conoscere qualcosa di diverso e la curiosità verso nuove culture e nuovi incontri può svelare una curiosità per la vita e una propensione a mettersi alla prova. Per alcuni può significare invece un desiderio di fuga dalla propria realtà o addirittura costituire l’unico modo per non fermarsi, per non entrare in contatto con le proprie parti più intime, che ci permettono di riappropriarci di sentimenti ed emozioni che non riescono a trovare voce. Si tratterebbe, in quest’ultimo caso, di una sorta di compulsione che non consente di rallentare, per chi fatica a sostare nell’incertezza e nelle difficoltà». Le motivazioni che spingono un individuo a mettere in atto determinati comportamenti sono quindi molteplici e vanno di volta in volta analizzate nel loro contesto specifico. «Al di là del numero di sintomi che la nosologia vorrebbe attribuire alla sindrome di Wanderlust, credo sia più interessante chiedersi se questi sono diventati disfunzionali fino a pregiudicare i rapporti del “viaggiatore vagabondo” o impedirgli di vivere in modo sufficientemente soddisfacente», conclude la psicoterapeuta.