Il nostro impatto sulla terra è così pervasivo da avere dato inizio a una nuova era geologica: l’Antropocene. Non esiste luogo – dal centro della calotta polare artica alle fosse oceaniche più profonde – senza la nostra impronta. Siamo la principale causa di estinzione degli altri esseri viventi; abbiamo deviato e arginato la maggior parte dei principali fiumi; i nostri aerei, le auto e le centrali elettriche emettono una quantità di anidride carbonica quasi cento volte superiore rispetto a quella prodotta dai vulcani.
Basta arrivare a pagina diciassette dell’ultimo libro della giornalista statunitense Elizabeth Kolbert per rendersi conto – non che manchino già i segnali – che il futuro del mondo sarà tutt’altro che roseo. L’autrice, firma di «The New Yorker», aveva già proposto scenari apocalittici con La sesta estinzione, testo che nel 2015 le ha fatto vincere il premio Pulitzer. Appena pubblicato in italiano, Sotto un cielo bianco, tra i libri dell’anno secondo «The Washington Post» e «Time», aggiunge un ulteriore tassello: non è vero, come sostengono alcune teorie, che il progresso ci salverà. Il titolo stesso del libro, nonostante sembri evocare qualcosa di poetico, in realtà rimanda, racconta Kolbert ad «Azione», a un possibile effetto collaterale di una «geoingegneria solare» per combattere il surriscaldamento globale. Si tratta di una tecnologia che consisterebbe nel diffondere particelle riflettenti nella stratosfera. Queste, rispecchiando la luce del sole verso lo spazio, provocherebbero un raffreddamento globale e i cieli azzurri diventerebbero più bianchi. Le preoccupazioni per un intervento del genere non si limitano all’aspetto, per così dire, estetico: per alcuni esperti, tra le conseguenze negative, ci potrebbe essere un’alterazione delle precipitazioni atmosferiche che causerebbe siccità in Africa e in Asia.
In Sotto un cielo bianco emerge tutta la hubris degli esseri umani: invece di riconsiderare e modificare i nostri comportamenti, preferiamo cercare soluzioni sempre più complicate, introducendo nuovi problemi. Numerosi i casi esemplari citati da Kolbert. Negli Stati Uniti, nel Chicago Sanitary and Ship Canal – corso d’acqua artificiale scavato per collegare i bacini dei fiumi Mississippi e Chicago – nei decenni passati sono state portate delle carpe argentate per ridurre le erbacce acquatiche. Dopo la pubblicazione di Primavera silenziosa di Rachel Carson, nel 1963, gli americani erano preoccupati per la presenza delle sostanze chimiche nell’acqua e i pesci avrebbero dovuto offrire un modo non tossico per tenere sotto controllo la diffusione delle alghe. Ma le carpe asiatiche sono mangiatrici voraci e, moltiplicandosi nel corso del tempo, sono diventate infestanti. Così, per contenere la loro avanzata, il Corpo degli ingegneri dell’esercito degli Stati Uniti ha inserito delle barriere elettriche nel canale. Non solo, le carpe vengono anche uccise da pescatori pagati per la missione e nella mattanza restano coinvolti i pochi esemplari autoctoni rimasti.
Kolbert mostra l’Antropocene nelle sue declinazioni più assurde. Spiega: «Si discute molto su quando sia iniziato: secondo alcuni, quasi diecimila anni fa, all’epoca dell’invenzione dell’agricoltura. Altri sostengono che sia un fenomeno del dopoguerra. In ogni caso, Antropocene è una definizione importante perché ci suggerisce che ora siamo noi a gestire il destino del pianeta, anche se in realtà non controlliamo ciò che sta accadendo».
Un altro esempio: New Orleans è in «lotta» perenne contro il fiume Mississippi attraverso un sistema sempre più elaborato di argini e drenaggi. Più l’acqua viene pompata, più velocemente la città sprofonda. E più sprofonda, più è necessario pompare. Gli idrologi descrivono il delta della Louisiana come un «sistema per metà umano e per metà naturale». A questo proposito esiste un acronimo inglese, Chans (Coupled human and natural system). «Un nome orribile – un’altra definizione intricata – ma non è semplice descrivere il groviglio che abbiamo contribuito a creare».
La nostra noncuranza rispetto alle altre specie viventi presenti sulla terra, ci ha portato a distruggere parte delle barriere coralline. Dopo avere visto i danni, gruppi di scienziati di tutto il mondo hanno avviato un esperimento di «evoluzione assistita» per creare varianti di coralli più robuste, capaci di resistere alle minacce della pesca eccessiva, dell’inquinamento, dell’aumento della temperatura dell’acqua e dei mari sempre più acidi. L’arroganza ci porta a decidere chi deve continuare a vivere e chi, invece, è meglio che muoia. Come accade con topi e ratti: per sterminarli, in certe isole del Pacifico, «da qualche decennio usiamo delle esche con un anticoagulante che produce emorragie interne, l’arma adottata più di frequente nelle infestazioni dei roditori». Tra gli aspetti negativi di questo metodo, il fatto che se altri animali li mangiano vanno incontro alla stessa sorte. Ed ecco che la soluzione che si sta cercando è quella di modificare i topi dal punto di vista genetico, per far sì che producano solo figli maschi e si estinguano «naturalmente». Tuttavia, ricorda Kolbert, attingendo alla letteratura distopica, «la tecnologia della spinta genetica è stata paragonata al famigerato ghiaccio-nove di Kurt Vonnegut, un composto talmente potente che un solo frammento è sufficiente a congelare tutta l’acqua del mondo». Per evitare catastrofi simili, si stanno studiando «spinte genetiche» in grado di esaurirsi dopo un certo numero di generazioni oppure vincolate a certe varianti locali.
Kolbert non ha scritto Sotto un cielo bianco per lanciare un messaggio particolare: «Credo solo che dovremmo pensare attentamente prima di pianificare nuovi interventi, perché quelli vecchi hanno avuto importanti conseguenze indesiderate. Molte tecnologie descritte nel libro sono davvero promettenti. Per esempio, l’ingegneria genetica è uno strumento importante, potrebbe portare grandi benefici, ma comporta anche grossi rischi».