«Voglio però ricordarti come eri, pensare che ancora vivi». Sono parole rubate a Francesco Guccini. Canzone per un’amica. Già, perché Doris era una figura amica. Per tutti. Lo era per coloro che l’hanno conosciuta, frequentata, amata. Lo era anche per coloro che l’hanno solamente sfiorata una volta, o che si sono limitati a godere della sua immagine pubblica. Sì, perché Doris era entrata con discrezione nelle nostre case. Era diventata quasi una di famiglia. Un’ambasciatrice della nostra ticinesità. Lo era per la sua spontaneità, per il suo sorriso rassicurante, per la caparbietà con la quale inseguiva e catturava tutti i suoi obiettivi, per la semplicità, l’umiltà e il pudore con cui celebrava i suoi successi.
È stata, è, e sarà uno dei capisaldi della nostra cultura sportiva. Per gli appassionati meno giovani, Doris ha incarnato il successo. Regazzoni, De Agostini, Figini. O meglio ancora, il Clay, la Doris e la Michi, come tutti dicevamo, alla ticinese. Tre icone. Tre perle che hanno ingigantito il nostro orgoglio cantonale. Doris, la prima a salire le vette della celebrità, in una disciplina, la discesa libera, in cui lei faceva scorrere le sue lunghe ed elegantissime gambe a cento all’ora. La prima a conquistare una medaglia ai Campionati del Mondo, il bronzo di Garmisch-Partenkirchen nel 1978. La prima a imporsi in una gara di Coppa del Mondo, nel 1976 a Bad Gastein, quando aveva soli 18 anni, un successo al quale ne seguirono altri otto. La prima a vincere la Sfera di cristallo in discesa libera, nel 1983, precedendo un fenomeno planetario come Maria Walliser. Dopo di che, giù il sipario.
A soli 25 anni, Doris De Agostini si fa da parte. E anche in questo suo fare la riverenza molto prematuramente è stata come una sorta di apripista per l’altra grande campionessa leventinese, Michela Figini. Michi ha rivelato come Doris fosse stata per lei «un esempio di coraggio, e di forza. Era una che non mollava mai». E come avrebbe potuto mollare, una ragazza che era stata accolta con scetticismo dai media e dagli osservatori del circo bianco. «È troppo alta, troppo magra, le mancano muscoli, non ce la farà a ripetersi» sostenevano in molti dopo il suo primo successo in Coppa del Mondo. Sappiamo come è andata. Non per caso, colei che taluni vedevano più su una passerella di moda che non su una pista innevata, era soprannominata: la Dura.
Una dura col sorriso che spacca. Una dura capace di essere una presenza discreta, umile e riservata. Doti probabilmente innate, che senza dubbio l’hanno aiutata a reggere e gestire la pressione di un mondo, quello dello sport di punta, in cui devi essere sempre al top, poiché se sbagli qualcosa, c’è sempre qualcuno pronto a dirti di cedere il posto, e qualcuno che quel posto è disposto a soffiartelo in un battibaleno. È sempre stata una ragazza, poi una donna, di poche parole. Poche ma piazzate al momento giusto, con il tono adeguato. Sapeva farsi ascoltare.
La sua riservatezza l’aveva portata a rifuggire i riflettori, la mondanità, gli eventi pubblici. Ciò nonostante, pochi anni fa, aveva accettato di intervenire, in qualità di madrina, alla serata di gala per la consegna dei riconoscimenti ai migliori sportivi ticinesi. Era stato commovente percepire la modestia con la quale suggeriva ai giovani talenti del nostro cantone, di insistere, di non mollare, di rispettare loro stessi e di rispettare gli altri. Altrettanto emozionante fu il constatare con quale attenzione la ascoltassero, i giovani presenti sul palco del Palacongressi di Lugano.
Immagino che per loro si sia trattato di un attimo importante, di quelli che ti lasciano il segno e ti aiutano a riflettere, a crescere. Sì, perché se scorriamo gli albi d’oro dello sport mondiale, facciamo fatica a trovare il nome di qualche atleta ticinese. Dobbiamo andare indietro di quasi cento anni, per scoprire che Giorgio Miez, chiassese di adozione, ma originario di Töss nel canton Zurigo aveva riportato in patria otto medaglie, di cui quattro d’oro, partecipando a quattro edizioni dei Giochi Olimpici tra il 1924 ed il 1936. Poi il silenzio. Per parecchi decenni. Quasi a voler sottolineare che nella nostra terra non ci fosse l’humus adatto per coltivare campioni.
L’avvento di Doris De Agostini è stato quindi un raggio di luce. Una botta di vitalità e di speranza. Ha infranto un tabù. Ci ha fatto capire che anche in un piccolo villaggio dell’Alta Leventina poteva nascere, crescere e formarsi, una grande campionessa. Ci ha aiutati a credere in noi stessi e nelle nostre potenzialità. Non è un caso se a distanza di pochi anni all’orizzonte si è profilato l’immenso talento di Michela Figini, e se dopo pochi decenni, con Lara Gut, pure di origini leventinesi, ci ritroviamo una nuova stella nel firmamento dello sci alpino.
Doris e Michela hanno gareggiato insieme solo per una stagione. Ad entrambe, lo scorso inverno, la stazione sciistica di Airolo, ha dedicato una nuova pista. Il Covid-19 ci ha impedito quasi subito di provare l’ebbrezza di sciare su quei pendii, con la consapevolezza che su quelle nevi, Doris aveva imparato a scivolare sempre più velocemente. Lo faremo, quando sarà possibile. E allora penseremo a lei. Oggi, il pensiero, va anche a tutte le persone a lei care, alle quali mancherà immensamente.