Chi non ce la fa ad arrivare a fine mese può chiedere aiuto allo Stato. La Confederazione sancisce che gli indigenti sono assistiti dal loro Cantone di domicilio. In Ticino ci sono alcune leggi che permettono di intervenire a sostegno dei bisognosi, che fanno capo alla Laps, Legge sull’armonizzazione delle prestazioni sociali, che disciplina i diversi aiuti possibili: indennità straordinarie di disoccupazione, assegni famigliari integrativi, assegni di prima infanzia e infine, assistenza sociale. Alla fine di dicembre del 2016 in Ticino vi erano 7401 casi, per un totale di 15’650 persone prese a carico. Nel «caso» rientra il titolare del diritto, ma anche il coniuge o il convivente e i figli, anche maggiorenni se economicamente dipendenti.
L’assistenza sociale è l’ultima risorsa cui accedere quando una persona non ha mezzi sufficienti per vivere. Per alcuni rimane ancora un tabù, perché ammettere di essere «in assistenza» è sinonimo d’incapacità e di fallimento. Una condizione frustrante e umiliante, in questa società che appare ricca e benestante.
«All’inizio per la vergogna non uscivo di casa... – racconta una ragazza ventenne – non avevo più relazioni sociali... adesso esco una volta alla settimana... così non mi faccio vedere troppo in giro, perché poi viene la domanda “ma cosa stai facendo?” eh sono in assistenza, no non esiste».*
In gennaio le persone in assistenza in Ticino erano 8106, 272 in più rispetto a un anno prima e 29 in più rispetto al mese precedente. Gli ultimi dati dell’Ufficio di statistica rivelano che il 72,7% degli assistiti sono persone sole e il 14,7% persone sole con figli. Dunque, quasi il 90% degli assistiti è single: solitudine fa rima con indigenza e comporta un rischio maggiore di povertà. Nell’ultimo decennio emerge che sono sempre di più lavoratori, working poor, e disoccupati che fanno ricorso agli aiuti sociali. C’è molta mobilità e in media si rimane in assistenza per 18,5 mesi: per i giovani la permanenza è più breve, per gli anziani più lunga. Sono dati messi in luce da uno studio dell’Ufficio cantonale di statistica (Percorsi dei beneficiari di assistenza sociale, 2015). L’analisi rivela che non siamo di fronte a una cronicità dovuta a una permanenza di lunga durata, ma spesso si entra e si esce nel corso del tempo: «L’aspetto cronico dell’assistenza – scrive Elena Sartoris – pur se discontinuo nel tempo, si manifesta sempre più sotto una nuova forma, che ricalca un fenomeno analogo di entrata e uscita dalla disoccupazione». Buona parte di chi esce definitivamente dall’assistenza è perché passa al beneficio dell’AVS o dell’AI o di altri aiuti sociali.
In Svizzera tra il 2010 e il 2016 il numero dei beneficiari dell’aiuto sociale di oltre 55 anni è aumentato del 50%. Un dato impressionante rivelato alla fine di febbraio dalla Conferenza svizzera delle istituzioni dell’azione sociale (COSAS). Una cifra che non si può spiegare con l’evoluzione demografica e che è solo indicativa, perché molte persone che avrebbero diritto agli aiuti non li chiedono, per vergogna o per altri motivi. Di fronte a questa emergenza COSAS ha proposto al Consiglio federale che gli over 55 che perdono il lavoro possano continuare a usufruire dell’assicurazione contro la disoccupazione, cercando di fare il possibile per far rientrare nel mercato del lavoro queste persone. «L’aiuto sociale – ha dichiarato Nicolas Galladé, Presidente dell’iniziativa delle città per la politica sociale – è in effetti la misura peggiore per le persone che hanno lavorato tutta una vita e che desiderano rimanere attive».
Dice una ragazza di 26 anni che è in assistenza: «È come se c’era un muro davanti a me e io continuavo a sbatterci. Loro uscivano, andavano in vacanza e mi chiedevano... ma a furia di no e anche la mia negatività hanno portato ad un loro allontanamento... Poi quando dici sono in assistenza tutti ti guardano come una malata, una persona da evitare». Questa testimonianza, come tante altre, è contenuta nello studio A 20 anni in assistenza, recentemente pubblicato dalla SUPSI. Si definiscono i percorsi di vita dei giovani a beneficio degli aiuti sociali e si mette in luce come «per la maggior parte di questi giovani adulti il ricorso all’assistenza sociale non sembra essere unicamente il frutto di scelte formative sbagliate, quanto piuttosto il proseguimento di una traiettoria di vita che, già dall’infanzia, li vedeva fruitori indiretti di sostegno sociale, o comunque in situazioni di disagio economico».
I ventenni in assistenza sono un fenomeno marginale, circa il 6 per cento del campione di allievi considerato dallo studio, ma indicativo di sofferenza e disagio economico e sociale preoccupanti. Giovani che hanno difficoltà in famiglia e poi a scuola e quindi faticano a integrarsi nel mondo del lavoro e rimangono precari e fragili. Si conferma un dato che spesso si dimentica: la povertà e la vulnerabilità sono ereditarie e svelano un malessere sociale che poi perdura.
La riforma della legge sull’assicurazione contro la disoccupazione del 2011 ha ridotto le prestazioni, limitando il periodo d’indennità per chi si trova senza lavoro. Questa misura finisce per indurre schiere di disoccupati a richiedere l’assistenza sociale. Fra questi molti giovani, in particolare coloro che al termine della scuola obbligatoria non continuano gli studi e non riescono a entrare nel mondo del lavoro. Gli anglosassoni hanno coniato il termine NEET, Not in education, employment or training. «Non essere in formazione né avere un lavoro per lunghi periodi tra i 15 e i 29 anni è una condizione deleteria – si legge nel rapporto della SUPSI – che impedisce di acquisire il capitale identitario necessario per il futuro inserimento nel mercato del lavoro». Dall’analisi dei percorsi dei giovani intervistati, lo studio individua tre caratteristiche. C’è chi utilizza gli aiuti per allontanarsi da una famiglia che non funziona, chi lo considera un aiuto puntuale, anche se può essere ripetuto nel tempo, e chi ricorre ai sussidi per far fronte a una vulnerabilità cronica, questi sono l’anello più debole dei giovani in difficoltà.
Il problema non è solo ticinese. In Svizzera alla fine del 2016 i residenti che hanno beneficiato dell’aiuto sociale sono stati in totale 273’273, il 3,3% della popolazione. Inoltre, la Confederazione ha sostenuto circa 81mila rifugiati e richiedenti asilo. La metà dell’aiuto sociale finanziario va a cittadini svizzeri e in tutti i settori dell’aiuto, un beneficiario su tre è un bambino tra 0 e 17 anni. Per migliorare questa situazione la Confederazione e i Cantoni devono investire maggiormente nella formazione continua. È quanto propongono La Conferenza svizzera delle istituzioni dell’azione sociale (COSAS) e la Federazione svizzera per la formazione continua (FSEA). Le due associazioni chiedono un credito sostanzioso ma anche un cambio di mentalità: la formazione continua deve essere mirata e vicina al normale mercato del lavoro, e non un’occupazione secondaria che non permette un reinserimento. «Nella società odierna – si legge nel documento A 20 anni in assistenza – i rischi possono diventare presto cronici e stabili nella vita quotidiana: non per nulla questa è stata definita la società del rischio (Beck). In essa ormai è la vita quotidiana a essere normalmente insicura. Oggigiorno procurarsi un reddito, trovare un lavoro, avere figli, sposarsi e mettere su casa sono azioni che sempre più comportano dei rischi».
Per evitare l’esclusione di questi giovani, che potrà riflettersi negativamente su tutta la società, è determinante il ruolo della scuola e della formazione. In questo senso è incoraggiante scoprire come nelle interviste raccolte dalla SUPSI i giovani esprimano un giudizio positivo sulle capacità di integrazione della scuola e sottolineano il ruolo decisivo avuto nei loro confronti da docenti e docenti di sostegno.
Bibliografia
* A 20 anni in assistenza, a cura di J. Marcionetti, S. Calvo e E. Casabianca, DFA/SUPSI.