Circa una decina di anni fa dedicavo un articolo alla tendenza del nostro linguaggio comune ad adottare sempre più spesso abbreviazioni, sigle e acronimi. Da allora la situazione si è ancor più «strutturata», anche grazie all’enorme diffusione di nuovi servizi telematici. Questi impongono una notevole concisione del testo e ciò sta agendo da ulteriore acceleratore della comunicazione. In effetti, è ormai consueto, soprattutto in ambito scientifico, tecnologico ed economico, l’impiego di sigle o acronimi che agiscono come involucri che rinviano a procedure, eventi o realtà di diversa natura (per esempio TAC, CAD, ADSL, BCE). Non stupisce che, di conseguenza, si sviluppino acronimi veri e propri anche nel linguaggio quotidiano, specialmente giovanile, come BTW (By The Way) o OMG (oh my God). A ciò si aggiungono poi le abbreviazioni che consentono il risparmio di caratteri e di tempo nella digitazione: qlc sta per qualcuno, xké per perché, raga per ragazzi, e così via.
Si impongono sempre più comunicazioni tronche e abbreviazioni anche nel linguaggio corrente delle nuove generazioni, del tipo: Ke fai sab sera?
Un sito Internet propone alcuni messaggi tipici, come «1 msg x te – ke fai sab sera? Usciamo coi raga?» che sta per «Un messaggio per te – che fai sabato sera? Usciamo con i ragazzi?». Fra gli adulti, possiamo immaginare un testo come il seguente, dove gli acronimi la fanno da padrone «da un SMS ho saputo che, ASAP, devo fare un controllo all’ABS del mio SUV» che sta per «da uno Short Message Service ho saputo che, As Soon As Possible, devo fare un controllo all’Anti-lock Braking System del mio Sport Utility Vehicle». Il primo messaggio richiede 584 bit mentre il secondo 1168, ossia esattamente il doppio.
Solo un risparmio di tempo?
Siamo dunque di fronte a un’evoluzione culturale (nel senso antropologico del termine) evidente e certamente non da poco perché, di mezzo, c’è il rapporto fra parola e pensiero. Si dirà che, in fondo, si tratta di semplici espedienti tesi a far risparmiare tempo e non certo a sviluppare pensieri profondi e argomentati. Insomma, pura informazione e non conoscenza. Tuttavia non è chiaro il rapporto che, sulla base della consuetudine di cui stiamo parlando, si può innescare anche a livelli che richiedano maggiore impegno comunicativo come la scrittura di un tema scolastico, la stesura di una relazione e, al contempo, la comprensione stessa di un testo articolato secondo le regole tradizionali.
Una cosa è sicura: il pensiero viaggia molto più rapidamente della parola e, quando parliamo o scriviamo, noi operiamo varie e inevitabili riduzioni di ciò che stiamo pensando. Se, poi, dobbiamo tradurre in scrittura il nostro pensiero, allora il problema si presenta sotto una forma ancor più delicata poiché il primo obiettivo da perseguire è senz’altro la chiarezza. Per raggiungerla dobbiamo, prima di tutto, non detestare la parola bensì amarla e trattarla, con buona pace di Samuel Beckett, come un bene prezioso perché essa vuole riprodurre, pur nella povertà della sua standardizzazione, il nostro pensiero.
Una poesia con acronimi?
Per questo è difficile immaginare una poesia o una recensione, una semplice dedica o un epigrafe scritta con acronimi o abbreviazioni, poiché il pensiero, per essere scritto, esige dilatazione del tempo, distensione ed estrema cura nella scelta dei verbi, degli aggettivi e degli avverbi in modo da evitare che il lettore perda di vista il significato dei concetti centrali che desideriamo comunicargli divenendo preda dell’equivoco o dell’ambiguità. Lo scrittore italiano Giuseppe O. Longo ha argutamente sottolineato come «Le parole non dicono nulla. Eppure abbiamo soltanto parole».
Quanto la parola possa avere successo nel rendere comune, cioè comunicare il pensiero, le emozioni o le impressioni è incerto. Ma è decisamente certo che, una volta fatte a pezzi o racchiuse in acronimi, le parole, se da un lato aumentano la velocità nel trasferimento dell’informazione a vantaggio dell’operatività professionale, dall’altro, nell’impiego quotidiano, riducono drasticamente la speranza di trasformare l’espressione dei nostri stati mentali in qualcosa di comprensibile dall’altro. Non è un caso che le opere artistiche non si prestino affatto ad alcuna abbreviazione: una lirica o una sinfonia, un balletto o un dipinto «resistono» a qualsiasi forma di riduzione sommaria poiché esse «parlano» attraverso una compiutezza per capire la quale occorre la necessaria dedizione. È come se, per dirla in termini informatici, l’autore ci dicesse: con meno bit non avrei potuto esprimermi. Dunque, se vuoi capirmi, abbi pazienza.