Se una notizia non è su TikTok non esiste

Media  ◆  Dal 19 al 21 aprile al Festival del giornalismo internazionale di Perugia si è parlato di rinascimento dell’audio e di intelligenza artificiale ma anche di piccole storie di successo
/ 08.05.2023
di Natascha Fioretti

La mia prima volta al Festival del giornalismo di Perugia risale al 2008. Per diversi anni, fino al 2015, è stato il mio appuntamento fisso, l’evento da non perdere per sentire il polso della situazione mediatica in Europa e negli Stati Uniti. Il mio ritorno dopo una lunga pausa era carico di aspettative, pensavo di trovare un mondo nuovo e magari, in qualche sua sfaccettatura, sconosciuto. In verità poco o nulla è cambiato.

Se dieci anni fa a raccontarci l’innovazione era Eric Ulken, direttore di tecnologia interattiva del «Los Angeles Times», oggi la palla è passata a Dave Jorgenson del «Washington Post» che per il quotidiano di Bezos ha lanciato l’account di TikTok da 1.5 milioni di follower e a Sophia Smith Galer, classe 1994, giornalista pluripremiata, Senior News Reporter di «Vice World News» e TikToker di grido con oltre 130 milioni di visualizzazioni che dice «per i giovani se una storia non è su TikTok non esiste». Content is king but distribution is queen dicono gli inglesi. In altre parole è avanzata la tecnologia e si sono velocizzati i trend, ma la sostanza è la stessa: il settore è in crisi e nel bel mezzo della rivoluzione. La grande differenza è che dieci anni fa il sistema media tradizionale aveva ancora una tenuta, c’era uno zoccolo duro e la fiducia nel futuro. Oggi lo zoccolo duro si è sgretolato e il futuro non lo vede nessuno. Si naviga a vista. Probabilmente da qui a pochi anni resteranno solo alcune grandi testate, quelle in mano ai grandi gruppi che contano su entrate diversificate e si rivolgono ad un ampio bacino di lettori internazionali come il «New York Times» o il «Guardian». Le testate regionali o locali se non spariranno subiranno grandi ridimensionamenti e dovranno prima o poi rinunciare alla carta sempre più costosa. Con molto spazio per le nuove realtà dalla forte identità che si rivolgono ad un pubblico di nicchia. Se e con quale successo si vedrà. «Republik» che aveva iniziato con il botto e andava con il vento in poppa durante la crisi covid, qualche settimana fa ha annunciato otto licenziamenti. A fine 2022 ha chiuso i battenti anche «Medienwoche», il magazine online che osservava e raccontava il panorama mediatico svizzero. Il motivo: incertezza economica e pubblico sempre più ristretto.

All’incontro Quale futuro per l’industria dell’informazione, Rasmus Nielsen, direttore del Reuters Institute for the Study of Journalism, ha esordito paragonando il panorama mediatico al cielo perugino che aveva osservato camminando pochi minuti prima lungo corso Vannucci: da un lato il sole, dall’altro nuvoloni neri che minacciavano temporali, il tutto condito dalla grintosa atmosfera del Festival che quest’anno vantava soprattutto ospiti internazionali e un pubblico giovane. Loro, i giovani, ascoltano soprattutto i podcast. Se c’è un formato che funziona e sul quale puntare è quello audio. Nicole Jackson – responsabile settore audio del «Guardian» – ha parlato di un vero e proprio rinascimento dell’audio con una crescita importante dell’ascolto dei podcast tra i giovani: «Non c’è modo migliore dell’audio per mostrare e raccontare le cose alle persone». Pure l’«Economist» – raccontava John Shields, responsabile podcast del magazine – ha ampliato la sua offerta perché «i podcast raggiungono un’audience globale e giovane» e permettono di trattare qualsiasi tema andando in profondità. Tra i temi caldi discussi al Festival anche l’uso dell’IA nelle redazioni, più facile adottarla in quelle grandi che possono contare su maggiori risorse tenendo comunque presente che l’IA non è il futuro ma il presente. Alessandro Alviani – eleboratore di linguaggio naturale e creatore di prodotti basati sull’intelligenza artificiale per gli editori – ha spiegato come funziona Parrot, strumento nato dalla collaborazione tra «The Times» e «Sunday Times», che aiuta i giornalisti a smascherare la propaganda e le narrazioni manipolate nei media controllati dallo Stato e a tenere traccia della loro diffusione sui social.

Tra le piccole storie di successo che premiano le iniziative editoriali con un’identità forte e rivolte ad un pubblico di nicchia c’è «The New European» il settimanale politico culturale di Matt Kelly lanciato nel 2016 in risposta al referendum sulla Brexit. Una testata cartacea e web senza pubblicità che vive degli abbonamenti ed è sostenuto da un gruppo di investitori come Mark Thompson, ex CEO del «New York Times», Lionel Barber, editore del «Financial Times» e Tanit Koch, editore della «Bild». Sei milioni di sterline raccolti in fase start-up, il settimanale l’anno scorso ha registrato una crescita degli abbonamenti del 40% ed è sulla buona strada quest’anno per raggiungere il pareggio. Piglio focoso e brillante, spirito imprenditoriale, Matt Kelly crede nella carta e nel giornalismo di qualità che parla alle persone, trasmette loro qualcosa di unico per cui vale la pena pagare «quando le persone prendono in mano il nostro settimanale sentono una forte connessione. C’è più valore nel giornale che nel sito web, la carta continua ad essere più redditizia».