Scrivo queste righe nel tentativo di diluire il senso di vuoto che mi attanaglia. Per elaborarlo ratealmente. Un po’ me lo gioco in questi giorni di inizio febbraio. Una parte, chissà, in primavera. Il resto, purtroppo, in un futuro non molto lontano. Lo scorso fine settimana, in un’atmosfera rarefatta e surreale, sono scattati gli Australian Open, il primo Grande Slam della stagione tennistica. Senza Roger Federer. Ma con Rafael Nadal, smanioso di operare il sorpasso, e Novak Djokovic, proteso verso il riaggancio nei confronti dei due fenomeni che lo precedono per numero di Majors conquistati.
A malincuore, dovremo abituarci a questa situazione. Roger Federer non aveva mai disertato il torneo che si disputa al Melbourne Park. Alcuni infortuni, e le relative fasi di riabilitazione, lo avevano tenuto lontano da alcune edizioni degli altri Grandi Slam, ma mai, dal suo debutto nel lontano 2000, fino allo scorso anno, quando fu eliminato in semifinale da Djokovic, l’asso basilese aveva saltato l’appuntamento con gli Australian Open. 21 partecipazioni, una in fila all’altra, 6 trionfi su 7 finali disputate (solo Nole con 8, ha fatto meglio di lui), 8 eliminazioni allo stadio delle semifinali.
Un percorso stellare che, forse, era già scritto nel firmamento, da quel gennaio del 2000, quando Roger, al primo turno, estromise Michael Chang, nettamente in 3 set. Sì, proprio lui, il minuscolo furetto statunitense di origini cinesi, che l’anno precedente, al Roland Garros, aveva messo in imbarazzo il fuoriclasse Ivan Lendl, con quel suo malizioso servizio scucchiaiato dal basso in alto. Da quel giorno, il pianeta tennis, per King Roger, è stato un sovrapporsi di autostrade a otto corsie, di boschi incantati, di palcoscenici sui quali esibire la propria classe e il proprio carisma.
Non credo di esagerare se ritengo Federer come uno dei campioni più carismatici di tutti i tempi. Lo era già da ragazzino, quando spaccava le racchette dalla rabbia. Lo è rimasto da Numero 1, con i suoi colpi apparentemente impossibili, ma snocciolati con una facilità disarmante, con le sue lacrime, le sue emozioni, il suo rispetto per gli avversari, la tranquilla determinazione con la quale ha sempre protetto dai possibili gossip, la sua signora e i suoi figli.
Da tempo, secondo me, fa parte del Gotha dello sport mondiale, al pari di Mohammed Alì, Pelè, Maradona, Michael Jordan, e pochi altri. Tutti fenomeni capaci di elevare ad arte la loro disciplina sportiva. Lungi da me l’intenzione di fare un torto alle donne, ma non riesco a trovare, nel novero delle grandi campionesse, un personaggio altrettanto carismatico. Forse Nadia Comaneci, per come ha gestito la sua drammatica e intensa storia? O Cathy Freeman, per come si è caricata sulle spalle tutte le discriminazioni subite dalla sua gente, la popolazione aborigena d’Australia?
Qualcuno potrà obiettare che la mia affermazione sia figlia del fatto che Roger è svizzero, quindi appartenente alla nostra collettività. Non nego che questa componente affettiva possa giocare un ruolo. Quante volte, ad esempio, ci siamo ritrovati uniti, davanti alla TV, a sospingere Simon Ammann, quando volava, anche se, con ogni probabilità, il salto con gli sci prima di allora non faceva parte delle nostre priorità. E col Curling? Quante spazzolate, anche in piena notte, quando un nostro rappresentante lottava per una medaglia olimpica nel curling!
Tuttavia con Federer il discorso è diverso. Lui è riuscito a moltiplicare da subito, sia il fascino del tennis, sia l’interesse del pubblico mondiale nei suoi confronti. Lo dicono i dati di ascolto e di gradimento televisivi: stellari quando sua Maestà scende in campo. Lo conferma il fatto che, per parecchi anni, è stato votato, secondo un sondaggio demoscopico, come il campione più amato del pianeta. Lo è stato da vincente. Ma questo riconoscimento gli è stato conferito anche da perdente. Senza scivolare nel fanatismo di coloro che hanno istituito una religione che ha in Diego Armando Maradona la sua divinità, mi sento di affermare che nel tennis si parlerà dell’era Prefederer, del meraviglioso ventennio di puro godimento che ci ha regalato, e dell’era Postfederer. Quest’ultima, fortunatamente, non è ancora iniziata, nonostante la sua assenza dagli Australian Open.
Eppure, il profumo acre della nostalgia comincia già a torturare le mucose dei nostri nasi perplessi, e a inumidire le nostre pupille, memori del commovente pianto al quale si abbandonava Lui, ogni volta che si imponeva in un grande Torneo. Ci può consolare la concreta speranza che Roger One possa riapparire, Covid permettendo, a casa di Nadal, al Roland Garros, oppure nel suo giardino di Wimbledon, o ancora ai Giochi Olimpici di Tokyo, o agli autunnali US Open. In ogni caso, avrà 40 anni suonati, e il solo vederlo scendere in campo sarà un bonus dal valore inestimabile. Dopo di che, punto e a capo.
Di Roger resteranno innumerevoli e splendidi ricordi, ma nelle nostre menti e nei nostri cuori albergherà anche il desiderio irrefrenabile di veder apparire, sul palcoscenico del tennis, un altro fenomeno in grado di rimpiazzare colui che da anni viene definito «Il Mozart della racchetta». Sì, perché senza di lui, il tennis, tornerà ad essere «solo» una bellissima disciplina sportiva.