Le aggregazioni comunali hanno trasformato Lugano dalla cittadina di 30’000 abitanti agli attuali 60’000, una dimensione che si avvicina a quella delle piccole città – come Lucerna o Winterthur – che nel sistema urbano svizzero hanno un rilievo appena inferiore a quello delle città più importanti. L’improvviso ingrandimento demografico di Lugano è stato provocato da decisioni «politiche» e non da una trasformazione economica e sociale più o meno lenta, come è sempre avvenuto nella storia delle città. Ma, oggi la «Grande Lugano» può definirsi città? Il suo «centro» possiede la dimensione e i caratteri di densità e di scala del paesaggio costruito, di concentrazione e di accessibilità dell’offerta di servizi pubblici e privati, che distinguono i centri delle città europee e che li fanno riconoscere come tali dalla generalità degli abitanti della regione?
È chiaro che Lugano deve dotarsi di un nuovo Piano Regolatore che non si limiti ad assemblare i diversi Piani elaborati dai Comuni prima dell’aggregazione, e che interpreti invece la visione di un’unica città complessa e policentrica. Ed è altrettanto chiaro che la visione di una Grande Lugano deve prevedere anche la trasformazione del centro della città, che sia adeguato per dimensione e per attrattività al suo nuovo ruolo territoriale.
Lugano e gli altri centri ticinesi non hanno vissuto la storia di industrializzazione e di grandi migrazioni che nel ’900 hanno formato la corona compatta di isolati intorno al nucleo antico in molte città del continente. E lo sviluppo economico dagli anni 60 in poi ha provocato la diffusione degli abitati nelle campagne e non il rafforzamento dei centri. Non ha avuto modo di formarsi una «cultura urbana», con la sua letteratura e tradizione critica, con le sue storie e i suoi miti. Non si è sviluppato quell’universo di forme associative tipicamente urbane, come i movimenti cooperativi.
Oggi si presenta un’occasione storica, un appuntamento da cogliere per imprimere una svolta ai meccanismi di costruzione della città, della sua forma. Il cuore geografico del tema – la strutturazione delle aree centrali – è la vasta area urbana di Molino Nuovo, il quadrangolo compreso tra il nucleo storico ed il cimitero, caratterizzato dalla minuta rete stradale ortogonale, nel quale l’urbanità del nucleo cede progressivamente spazio ad un’edificazione povera di relazioni e di spazi pubblici. Ogni isolato ospita più palazzine di uffici o di residenze, distanziate tra loro e dalle strade come previsto dalle norme, al centro di sedimi recintati e usati come posteggi, con i piani terra per lo più privi di attività accessibili al pubblico. Una sequenza di oggetti muti, il cui insieme non provoca nessuno degli effetti che «fanno città». Molte gru segnalano in quest’area una pluralità di interventi limitati alla sostituzione dei singoli edifici esistenti, ognuno dei quali diventa più grande e più alto, ma privo di relazioni spaziali con l’intorno, come lo era l’edificio preesistente. Le strade, povere di qualità, rimangono le medesime: la cosiddetta mobilità sostenibile (i pedoni e le biciclette) non hanno conquistato un metro quadro in più alle proprietà private.
Questa «densificazione» in corso è la dimostrazione che il concetto di densificare tout court è sbagliato e può produrre effetti opposti a quelli voluti, valorizzando la rendita fondiaria senza vantaggi per la collettività. La densificazione deve essere «progettata» da chi governa il territorio, non deve essere un regalo che ogni singola proprietà gestisce a piacere. A Zurigo, a Ginevra, nei migliori esempi delle città europee, il Comune interviene nella costruzione e ricostruzione della città e condiziona la progettazione con forme diverse di incentivi e disincentivi, imponendo partecipazione e concorsi di architettura, con obiettivi coerenti con un programma fondato su un’idea forte di città e di uso del suolo, un’idea discussa e condivisa. Non si tratta di limitare i diritti di proprietà e dell’iniziativa privata, ma di coniugarli con un disegno di interesse generale.
La proprietà è molto frazionata e ciò costituisce un ostacolo alla progettazione di interventi coordinati: bisogna che le singole proprietà rinuncino al proprio orto e progettino insieme, ridistribuendo i loro diritti a prescindere dai limiti catastali, e che siano autorevolmente invitate a farlo, attraverso gli strumenti – resi obbligatori – che l’urbanistica più aggiornata ha già sperimentato con successo. Bisogna che l’autorità comunale governi il suolo della città e non lo abbandoni ai privati.
Recatevi a Lugano Cassarate, ai piedi della collina di Viganello, in via Pico, e attraversate il giardino dell’edificio recentemente costruito al civico 29, che mette in comunicazione via Pico con via Vicari. Non potete fare a meno di osservare come l’atteggiamento civile di questa proprietà e la cultura dei suoi progettisti (il brasiliano Angelo Bucci, con il supporto locale di Baserga e Mozzetti), se fosse adottato in modo generalizzato, potrebbe cambiare il volto complessivo della città. Non ci sono recinzioni e l’area scoperta è attrezzata per una piacevole passeggiata pubblica. È un esempio piccolissimo, ma che indica con chiarezza una cultura e un modo di pensare all’uso aperto e ibrido del suolo urbano alternativo a quello chiuso e antiurbano, più diffuso e dominante.
E pensate al destino delle aree ancora disponibili per i progetti importanti, come il Campo Marzio, che potrebbero contribuire in modo decisivo, con un grande progetto finalizzato a «fare città», alla costruzione di una città competitiva, che attiri investimenti. Perché, per esempio, l’area della stazione – che è stata oggetto, nella porzione nord, dell’interessante progetto della nuova sede SUPSI, e che è oggi oggetto di una gara di progettazione per l’edificazione di quella sud – non diventa il tema di un grande progetto urbanistico, che comprenda anche i sedimi privati e pubblici situati a monte della ferrovia, a Besso, e che dimostri, attraverso l’organizzazione di un vasto confronto pubblico, la consapevolezza del suo valore strategico?
La questione è culturale e attiene, prima di tutto, alla cultura politica. Attiene alla capacità di criticare la situazione esistente e di utilizzare le vivaci risorse culturali che esistono nella società per elaborare con il loro supporto un’idea alternativa di città. È necessario guardare agli esempi e alle esperienze di quelle città che hanno rimesso in discussione i modi della loro crescita, che hanno invertito la tendenza dell’abbandono dei residenti, realizzando condizioni ambientali nuove. A Zurigo, il ritorno in città è in atto, le aree industriali dismesse sono state l’occasione per costruire nuovi parti di città dense e vitali, con abitazioni accessibili alla domanda delle nuove famiglie. E anche il patrimonio esistente, spesso sottoutilizzato e invecchiato, viene rinnovato cercando di coniugare l’esigenza della privatezza con le opportunità della socialità.
Certamente si tratta di un processo difficile e lento, e non ci sono modelli a cui riferirsi con certezza, ma le energie intellettuali ci sono e non trovano sbocchi operativi. Bisogna che la politica non si chiuda nelle segrete stanze, bisogna inventare luoghi nuovi di partecipazione. Perché la città, quando è pensata come luogo delle relazioni sociali più intense, è il modo più evoluto di abitare.