Una preghiera lungo il percorso

I rustici non sono l’unico intervento operato da Martino Pedrozzi in Val Malvaglia. Di più recente costruzione è una cappella, ubicata sopra un masso adiacente la strada che costeggia il lago artificiale. Un’opera che ricorda la Cappella del Ponte Cabbiera sommersa dalle acque della diga della Valle Malvaglia nel 1959. Che relazione c’è fra i due progetti, apparentemente distanti? «In effetti questo lavoro presenta delle similitudini con le ricomposizioni. Anche la cappella assume il significato di un simbolo, non è frequentabile al suo interno, perché collocata su una roccia inclinata: non è fatta per entrarci. Presenta una croce che si rivolge al viandante di oggi, che sale in Val Malvaglia in macchina e non a piedi. È tutto concepito in modo che sia la cappella ad andare verso la persona, e non tanto la persona che deve entrare in cappella». Anche in questo caso la componente pubblica è predominante rispetto alla componente privata. «Io parto dall’idea che l’architettura è sempre pubblica: anche una casetta privata, una villetta, in fondo lo è. Perché quando costruisci modifichi lo spazio di tutti, sposti l’aria, costruendo. Lavorare su questa componente pubblica dà maggior forza al progetto. Questa cappella, forse inconsciamente, riprende molte riflessioni fatte precedentemente con le ricomposizioni». Ovvero la valorizzazione della componente pubblica dell’architettura, che fa in modo che tutti si sentano appellati, chiamati dall’opera. In questo c’è una visione politica, anche filosofica, che però nel lavoro di Pedrozzi assume sempre dei caratteri essenziali, terreni.


Ricostruire i ricordi

Architettura - Il lavoro di Martino Pedrozzi vuole restituire al paesaggio l’immagine di un passato lontano e di tradizioni costruttive che rischiano di essere dimenticate
/ 02.08.2021
di Laura Di Corcia

Ricomporre quello che il tempo ha distrutto per recuperare la memoria. È questo, riassunto all’osso, il senso del lavoro dell’architetto ticinese Martino Pedrozzi, che da vent’anni si è interessato e ha iniziato a lavorare sulle malghe presenti in Val Malvaglia. Quelle che noi, qui in Ticino, chiamiamo cascine o rustici, e che sono la memoria di un tempo che non c’è più, fatto di lavoro duro, transumanza e montagna.

«Ho iniziato vent’anni fa da solo. La prima ricomposizione è stata pensata nel ’94 e realizzata nel 2000. Le malghe sono delle costruzioni estremamente solide e fragili – spiega l’architetto, che ha uno studio privato a Mendrisio e parallelamente svolge l’attività di insegnante presso l’Accademia di architettura – nel senso che fino a quando viene eseguita una certa manutenzione rimangono in piedi, ma senza una manutenzione costante ecco che crollano. Perché sono a secco. Sono pietra e legno assemblati senza nessun tipo di collante, che potrebbe reggere agli urti degli agenti atmosferici».

Il problema risiede soprattutto nel tetto. Quella è la parte più fragile, esposta al vento e alle intemperie. «Una volta, durante la transumanza, i contadini si occupavano di tenere in piedi i rustici, che avevano una funzione economica e sociale – continua l’architetto. «A partire dagli anni Cinquanta, con l’insediamento delle prime industrie, l’economia agricola e di montagna è finita abbastanza velocemente, a parte dei casi singoli». È crollato un mondo e sono crollate anche le malghe.

«Per la gente del posto, questi rustici rappresentavano una vita passata fatta di stenti, di fatiche. L’abbandono, quindi, è stato alquanto repentino. In alcune cascine che abbiamo visitato si trovavano ancora la tazzina, il bicchiere sul tavolo, il crocifisso appeso: come se l’abbandono fosse stato fatto quasi su due piedi». Il lavoro di Pedrozzi non è quello di ricostruire la malga in modo da conferirle l’aspetto che aveva un tempo, ma quello di concentrare tutte le pietre crollate all’interno del perimetro della cascina, in modo da realizzare dei volumi compatti. «In questo modo si cancella lo spazio interno delle cascine e si crea un pieno. E si cancella ogni possibilità d’uso, ma si recupera il significato pubblico della cascina, la sua memoria storica. Non solo: si restaura lo spazio esterno, che diventa pascolo e può essere riutilizzato, a differenza delle cascine, che non possono recuperare la loro funzione originaria».

Perché, però, non ricostruirle com’erano? «Quel tipo di costruzione aveva senso all’interno di un certo tipo di frequentazione di quella costruzione, che ne garantiva la manutenzione. La cascina non era mai finita, in qualche modo. Era concepita per essere sottoposta a continui lavori di manutenzione, che erano in fondo parte stessa del concetto costruttivo. A meno di pensare di ripristinare una funzione che implichi – ma non in modo imposto o artificiale – una manutenzione continua, non avrebbe senso ricostruire le malghe, che poi finirebbero di nuovo per essere distrutte. Nessuno si metterebbe oggi a fare una costruzione che non sai se fra vent’anni sarà ancora in piedi o no».

Questi volumi, questi pieni che si trovano sui prati di alta montagna hanno qualcosa di affascinante e arcaico, che ricorda quasi i nuraghi sardi. A tal punto che qualcuno potrebbe accostare il lavoro di Pedrozzi alla Land art, cosa dalla quale l’architetto prende le distanze. «L’associazione di idee è immediata e legittima. Ma questo è un lavoro su delle pre-esistenze architettoniche. L’architettura è infatti composta da una componente pubblica e una privata.

È un lavoro che interviene su queste componenti, andando a ridurre o azzerare la componente privata e a riportare alla situazione iniziale la componente pubblica. È architettura. La natura dell’intervento è completamente diversa rispetto agli scopi e ai propositi della Land art». Un lavoro, questo sulle malghe, che Pedrozzi ha iniziato in solitudine e che poi ha coinvolto tante persone, fino ad arrivare a due anni fa, nel 2019, a realizzare una ricomposizione coinvolgendo più di cento studenti, provenienti dall’Accademia di Mendrisio, dal Politecnico di Zurigo e dal Politecnico di Losanna. Un’esperienza intensa, da cui è nato un documentario, Essere felici, di Vasco Dones e Franco Cattaneo, che sarà presentato il 18 agosto in occasione della seconda edizione del Cima Norma Art Festival.

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