«La storia è la vita delle idee. Non sono le persone a scriverla, ma il tempo. La verità dei singoli, uomini e donne, è un chiodo al quale ognuno appende il proprio cappello» dichiara la signora N. al premio Nobel per la letteratura del 2015 Svetlana Aleksievic in Tempo di seconda mano. Il libro, di quasi 800 pagine, è una raccolta struggente, sorprendente e travolgente di testimonianze di ex cittadini sovietici, che dopo essere nati in un impero comunista che individuava nel futuro la realizzazione di una società perfetta, all’improvviso hanno visto il crollo di una fede in cui avevano investito la loro stessa esistenza, ritrovandosi a essere russi, ucraini, lettoni, estoni…, cioè smettendo da un giorno all’altro di fare parte di uno dei più grandi e potenti imperi del mondo.
«Per tutta la mia vita ho avuto una sola fede: noi eravamo i più felici, eravamo nati in un paese meraviglioso unico al mondo! Senza eguali! Abbiamo la piazza Rossa e sulla Torre del Salvatore il carillon che dà l’ora esatta agli orologi nel mondo intero» (Margarita Pogrebickaja, medico, 57 anni). Le persone incontrate da Aleksievic (la grande giornalista di madre ucraina e padre bielorusso, infatti, non intervista la gente, ma la incontra, mai lesinando empatia e umiltà) sono di ogni estrazione sociale e formazione scolastica immaginabile, unite solamente da un passato che le vedeva concittadine, e da un presente che le vuole divise. E se da una parte vi è chi condanna apertamente quell’«inganno organizzato», vi è comunque anche chi rimpiange i vecchi tempi.
Un tempo erano di cittadinanza sovietica anche le decine di migliaia di persone giunte in Svizzera dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Proprio in virtù di questa lacerazione personale, risulta ancora più difficile e doloroso accettare l’invasione brutale da parte di quello che veniva considerato un «fratello maggiore». Lo è anche per Oleksandr e Dina, residenti al Tertianum Comacini di Chiasso dalla scorsa primavera, innamorati della cultura e della lingua italiane, che nel Donbass da trent’anni possedevano un’azienda con decine di dipendenti.
Una coppia molto unita, il cui unico figlio, un dottorato in fisica (ma attivo in Data Science), qualche anno fa è emigrato in Germania insieme alla moglie anestesista. «Sì – racconta Oleksandr – perché questa guerra è iniziata ben prima, nel 2014. I miei genitori erano dovuti scappare dal Donbass verso Karkhiv, e ora è impossibile vendere la loro casa. Nel frattempo, mia madre è morta. Sapevamo da molto che stava per succedere qualcosa, per cui abbiamo preparato le valigie e i documenti, discutendo a lungo su ciò che avremmo fatto. E il 24 febbraio, alle 5 di mattina, ci siamo svegliati per un rumore simile a quello di un fulmine, ma già sapevamo che non era né un fulmine né un tuono: erano cominciati i bombardamenti».
Bombardati dalla Russia, il paese che dopo la dissoluzione dell’URSS nel 1991 era diventato un «semplice» vicino di casa, seppur insignito di un potere molto forte, in cui si riverbera ciò che resta dell’impero sovietico, e con un’accezione di democrazia e convivenza civile diversa da quella ucraina. Dina si commuove quando racconta che «A cinquant’anni, un’età in cui non puoi più cambiare le cose, ho capito che il sistema dell’Unione Sovietica aveva in qualche modo spezzato la mia persona, distruggendomi, rendendomi schiava, poiché era ben più forte del singolo individuo. Già da bambina non amavo andare a scuola, e ogni volta che finivano le vacanze scolastiche piangevo. L’Unione Sovietica ha distrutto la mia anima».
Oleksandr si riallaccia ai ricordi della moglie: «Prima del crollo dell’Unione Sovietica amavo Lenin, reputandolo un grande della Storia. Pensavo che il comunismo fosse una cosa positiva e che sarebbe diventato immenso. Credevo potesse essere la via giusta per l’umanità tutta, anche se, quando ascoltavo musica rock, una delle mie grandi passioni, non mi capacitavo del fatto che la musica “del capitalismo” potesse essere tanto bella».
Eppure, anche in un paese blindato come l’URSS la musica occidentale riusciva a penetrare… «Non c’era Internet, ma c’erano i dischi – continua Oleksandr – e le musicassette, che i giovani sovietici vendevano tra di loro, in quello che era una specie di mercato nero. Molte cose, come ad esempio i jeans, ma anche i semplici sacchetti di plastica del supermercato, venivano importate illegalmente dai figli dei capi del partito comunista durante i loro viaggi all’estero. Eravamo tutti figli della propaganda, che avveniva anche nelle scuole. Per parecchio tempo ho rivestito il prestigioso ruolo del propagandista: la sera dovevo guardare il notiziario in TV e il mattino successivo, prima delle lezioni, era mio compito spiegare alla classe le “malefatte” dell’Occidente, dimostrando così come il nostro modo di vivere fosse nettamente migliore del vostro. A quell’epoca non avevo alcun dubbio su ciò che pensavo. Al termine delle nostre grandi parate militari, ad esempio, c’erano sempre scontri e risse, perché la gente si ubriacava in massa: io all’epoca me la prendevo con questa gente, perché ero convinto di vivere in un sistema giusto, ma con le persone sbagliate, incapaci di fedeltà totale. Solo in seguito ho capito che magari anch’esse vivevano una crisi di fede».
La fede nel regime come leitmotiv di un’esistenza votata alla collettività, come racconta sempre Pogrebickaia ad Aleksievic: «Avevamo un futuro. Avevamo un passato. Di cos’altro avevamo bisogno? (…) La fede! La fede! La fede è qualcosa che supera la ragione».
Con il passare degli anni il malessere di Dina e Oleksandr cresceva, rafforzando, più che la fiducia in un futuro migliore in cui il comunismo si sarebbe compiuto fino in fondo per una società giusta e ideale, una serie di dubbi dilanianti. «Il comunismo è una specie di schizofrenia – continua Oleksandr – perché da una parte vivevamo secondo i suoi valori, ma dall’altra sentivamo la musica occidentale, che amavamo, e vedevamo le donne occidentali, che trovavamo belle. Ma soprattutto, gli occidentali non avevano un’aria né triste né depressa, pur non godendo dei benefici dell’URSS».
Nemmeno l’arte, che può tramutarsi in un’ancora di salvataggio in molte situazioni, rappresentava una possibilità di evasione, in un paese che ha dato i natali a mostri della letteratura dal valore indiscusso. «Potevamo leggere quasi solo letteratura russa, racconta Dina: Tolstoj, Dostoevskij, Saltykov Scedrin, Goncarov. A scuola la poca letteratura straniera presente, come ad esempio Mark Twain, doveva essere libera da qualsivoglia forza politica. Oggi non posso più leggere i russi, perché ai miei occhi la letteratura russa insegna come non dobbiamo vivere. Io invece voglio capire come vivere meglio e scoprire come vivono gli altri».
Oleksandr si riallaccia al discorso della moglie: «Anche le mie aspirazioni culturali sono sempre state troncate: a me sarebbe piaciuto suonare la chitarra rock, ma mi hanno imposto di suonare la balalaika e di cantare in un coro. Ovviamente le canzoni erano patriottiche, e così ragazzi e bambini si ritrovavano a cantare cose come “stiamo per morire tutti per la nazione sovietica”».
L’ideologia comunista, come ribadito dai nostri interlocutori, non stimolava l’essere umano nella sua diversità individuale, e di conseguenza, non prevedeva ritrovi pubblici, bar, concerti. «I pochi caffè erano frequentati da turisti, da qualche artista famoso e dalla gente più ricca. Non eravamo abituati all’idea di uscire, e non lo facciamo nemmeno oggi che possiamo. Tra giovani ci si incontrava in casa, magari davanti a un gioco da tavolo e una bottiglia di vodka» Dina guarda Oleksandr con un sorriso. «In mancanza di vodka c’era chi si beveva l’alcol delle macchine o il liquido antigelo. C’era anche il vino, che era un po’ più economico e si faceva con qualsiasi cosa. Io e Oleksandr ci siamo conosciuti a una festa a Capodanno, lui frequentava il liceo militare per diventare pilota».
Continua Oleksandr: «Ricordo che c’era un’unica notte, tra l’ultimo e il primo giorno dell’anno, alle cinque di mattina, in cui la nostra TV trasmetteva quaranta minuti di musica con band musicali famose come ABBA, Boney M. o Susy Quatro. E anche se Led Zeppelin, Black Sabbath e Pink Floyd erano proibiti, tutti i giovani dell’Unione Sovietica erano incollati al televisore. Lo stesso valeva per il cinema: oltre ai film sovietici, potevamo tutt’al più vedere qualche innocua produzione bolliwoodiana…»
Come si legge però nel libro di Svetlana Aleksievic, non tutto è da buttare di quel periodo, forse anche perché farlo significherebbe avere creduto nell’ideologia sbagliata per tutta una vita, e dunque avere vissuto e lottato in nome di un errore… Oleksandr scoppia a ridere, e scuotendo la testa illustra la sua interpretazione dell’atteggiamento di chi si ostina a volere trovare anche aspetti positivi nel comunismo: «Al tempo del comunismo eravamo più giovani e la nostra vita sessuale era più ricca, dunque l’Unione Sovietica era una cosa positiva in virtù del fatto che corrispondeva alla nostra giovinezza! Non eravamo felici, perché la paura faceva parte della nostra vita. Oggi pensandoci proviamo un immenso dispiacere misto a delusione», e Dina si asciuga una lacrima mentre prende la parola: «A un certo punto ci è giunta la notizia che il governo aveva deciso di dissolvere l’Unione Sovietica, ma la reazione della gente è stata minima, poiché era abituata a vivere secondo il motto della mera sopravvivenza. L’unica preoccupazione era di coltivare abbastanza patate. In quel periodo si coltivava ovunque, e nei negozi, ormai vuoti, si trovava solamente succo di betulla».
Ma non sarà stato facile, concretamente, subire un attacco da un popolo che per sua disposizione geografica e pregresso storico era considerato alla stregua di un fratello. «Ci vorranno intere generazioni per aggiustare questa cosa. Per tutti gli anni dell’URSS ci è stato ripetuto che eravamo tutti popoli fratelli, anche se la Russia è sempre stata da considerarsi una specie di fratello maggiore e aveva coniato un termine dispregiativo per ognuno dei popoli “minori” del proprio regno».
Dopo il crollo dell’impero molti si sono ritrovati con un’identità nuova, una sfida, poiché bisognerebbe riuscire di colpo a sviluppare l’amore per una patria diversa. «Ci siamo dovuti abituare, certo… Anche perché dopo il crollo la propaganda è comunque proseguita per qualche tempo. Ma poi, a poco a poco, si è sviluppata l’idea di indipendenza e di libertà, di una coscienza ucraina. Sono ormai trascorsi più di trent’anni da quel 1991, e le nuove generazioni sono già molto diverse da noi, anche se spesso confrontate con i ricordi di chi è più anziano e ha rimosso gli aspetti negativi del sistema, salvando solo quelli positivi. L’Ucraina nel 2015, scegliendo di percorrere la strada della verità e della libertà, ha aperto i suoi archivi del KGB, rivelando l’orrore di certi delitti sovietici come l’Holodomor, i gulag o la collettivizzazione. La Russia, invece, ha deciso di lasciarli chiusi fino al 2044, nel tentativo di nascondere i reati dei propri genitori, biologici e ideologici, e scegliendo così la via della menzogna e della schiavitù».