Quel che fa bene alla ricerca scientifica

Ambienti fino a pochi anni fa inaccessibili fungono ora da banco di prova per l’implementazionee lo sviluppo di nuovi metodi di ricerca
/ 21.11.2022
di Amanda Ronzoni

Cosa spinge uno speleologo a infilarsi in un buco sottoterra, al buio? E un glaciologo a scalare montagne e affrontare crepacci al freddo e al gelo? Perché andare sulla Luna o su Marte quando abbiamo tanti problemi irrisolti sulla Terra?

Conoscere e capire come funzionano il nostro mondo e quelli più vicini a noi non sono attività fini a sé stesse. Alla base del gusto che l’uomo ha per l’esplorazione, c’è anche il bisogno di comprendere i meccanismi che sottendono alla vita. Per poterla vivere al meglio.

Ci sono luoghi sul pianeta, come le profondità marine, le grotte o le vette delle montagne, ancora inaccessibili e sconosciuti, che custodiscono letteralmente miniere di informazioni. Oltre all’oggettiva difficoltà di accesso per ragioni logistiche, geografiche e geomorfologiche, spesso questi posti sono «protetti» anche da condizioni climatiche particolarmente ostiche. E questo è il motivo per cui le spedizioni e i progetti messi in campo per la loro esplorazione necessitano approcci non convenzionali, team di ricercatori con competenze multiple e incrociate, finanziamenti spesso importanti e difficili da ottenere.

Uno di questi progetti lo abbiamo presentato proprio nelle scorse settimane in queste pagine (v. articolo Istantanee del passato su «Azione» del 24 ottobre 2022). La componente internazionale e multidisciplinare è determinante per la qualità e non solo per la quantità dei dati che si vogliono raccogliere e dei risultati attesi. Per accedere alle cavità glaciali ed esplorare i tunnel di lava (dei quali parleremo nel nostro prossimo articolo) sono entrati in azione ricercatori che hanno anche una solida esperienza di speleologia, alpinismo e arrampicata sul ghiaccio

Determinante la presenza di un’associazione come La Venta Esplorazioni Geografiche che, in collaborazione con le società speleologiche locali, si occupa dell’esplorazione di luoghi remoti supportando i ricercatori con il massimo livello di sicurezza e garantendo loro un ampio raggio di manovra. Ma oltre all’esperienza e alle competenze personali, la ricerca fa sempre più spesso affidamento anche su un apparato tecnologico che nel tempo si sta affinando sempre più. Le parole chiave sono miniaturizzazione e portabilità.

Fin dal primo campo internazionale di speleologia glaciale, svoltosi nel 2014 in Svizzera, sul ghiacciaio del Gorner, nell’ambito del progetto di collaborazione trasversale Inside the Glaciers, la presenza dei droni è stata determinante. Si trattava all’epoca di una tecnologia giovane, coi suoi pregi e difetti, e ancora molti dubbi sui risultati che avrebbe prodotto. Non esistevano ancora modelli tascabili: i primi strumenti erano tanto ingombranti quanto delicati. Per realizzare la prima mappatura 3D di un mulino glaciale, fu necessario trasportare con notevoli difficoltà e fatica un grosso quadricottero autocostruito. Il risultato però fu incoraggiante: venne elaborato il modello fotogrammetrico dell’ingresso del mulino G6, il più imponente tra quelli esplorati nel ghiacciaio del Gorner in oltre 20 anni di attività. Da allora, in meno di dieci anni la tecnologia ha fatto passi da gigante.

Droni sempre più leggeri e performanti che possono infilarsi nei crepacci alpini o nelle viscere della terra sono stati messi all’opera recentemente, sia sui ghiacciai svizzeri, sia come preannunciato nei tunnel di lava.

In ambiente glaciale, sempre nell’alveo del progetto Inside the Glaciers partecipano alle attività sia l’italiana Vigea, sia l’elvetica Flyability, che con i suoi collision drone a struttura sferica, resistenti a urti, schizzi d’acqua e basse temperature, sono in grado di restituirci mappature 3D di ambienti sub-glaciali e superficiali mediante laser scanner e fotogrammetria. I modelli tridimensionali e la documentazione fotografica permettono di effettuare confronti morfologici con i materiali acquisiti a intervalli regolari. I risultati di indagini effettuate da droni ad alta risoluzione con sensori multispettrali permettono di isolare i diversi contributi di componenti biotiche e abiotiche all’annerimento dei ghiacciai. I dati ottenuti vengono poi combinati con le misurazioni del satellite Sentinel-2 per comprendere i meccanismi di deposizione della polvere e il ruolo delle fioriture algali nell’aumentare il processo di fusione superficiale.

Durante le attività di quest’anno (2022), è stata collaudata con successo sul campo un’altra importante novità tecnologica. Con il supporto della società Vigea, è stato utilizzato il nuovo scanner Leica BLK2GO per la realizzazione di mappature in 3D all’interno di una grotta di contatto che è stata rilevata in pochi minuti, semplicemente camminando all’interno della cavità, senza rischi per gli operatori.

Ancora, si è fatto ricorso con successo a dispositivi portatili che consentono analisi spettroscopiche di assorbimento UV-visibile per lo studio del metabolismo dei microrganismi presenti nella calotta glaciale e la ricerca di nuove proteine fluorescenti per la biotecnologia.

Per quanto riguarda i tunnel di lava, dopo l’eruzione del vulcano Fagradalfjall, avvenuta lo scorso anno nella penisola di Reykjanes in Islanda, Francesco Sauro, geologo ricercatore e professore presso l’Università di Bologna, vincitore nel 2014 del prestigioso «Rolex Award», ma anche del «National Geographic Explorer», ha richiesto e ottenuto un grant dalla National Geographic Society per un progetto – Hraunrásir (ovvero, Tunnel di lava, in islandese) – incentrato sullo studio di questi ambienti estremi, sulla loro evoluzione mineralogica ed ecologica. Le attività hanno il supporto di La Venta, dell’Università d’Islanda, di Veðurstofa Íslands (l’ufficio meteorologico islandese), del FABIT dell’Università di Bologna e coinvolgerà molti altri esperti e collaboratori.

Continua insomma lo studio intensivo di questi luoghi, già avviato con il progetto Microceno alle isole Selvagens dove per studiare la caratterizzazione elementare di rocce e minerali e analizzare il DNA di campioni microbiologici sono stati impiegati un’apparecchiatura portatile di fluorescenza a raggi X, «Phenom XL G2» della Thermo Fisher Scientific, e un sequenziatore portatile di DNA per analisi in-situ, MINI-ION, permettendo l’identificazione dei microrganismi presenti in meno di 24 ore dal momento del campionamento (e anche di questo progetto avremo modo di parlare in seguito).

Questi dispositivi, sempre più piccoli e maneggevoli, sono destinati a essere i nostri occhi e le nostre mani in luoghi un tempo inaccessibili all’uomo, dischiudendoci un bagaglio immenso di informazioni che ci accompagneranno verso il futuro.