Tra blues delle feste e depressione invernale

Che il periodo delle festività abbia un influsso negativo sulla salute mentale di molti lo ribadisce Gloria Eliometri, psichiatra e psicoterapeuta del Luganese con alle spalle una lunga esperienza nei Servizi psico-sociali del Cantone. «Il fenomeno riguarda sia le persone vulnerabili, che soffrono magari già di disturbi dell’umore, sia le persone che di solito non manifestano segnali di disagio particolari. Per psichiatri e psicologi è un classico: ogni anno, da metà novembre, il carico di lavoro aumenta. Le richieste di aiuto crescono. L’umore dei pazienti seguiti peggiora: sono più malinconici, fragili, stanchi. Parecchi di loro si trovano più spesso in situazioni di urgenza». Per la nostra interlocutrice questa tendenza può essere ricondotta al fenomeno dell’Holiday blues, un abbassamento del tono dell’umore che caratterizza il periodo delle festività e delle vacanze. Un disturbo che colpisce persone di tutti i ceti sociali e le fasce di età. Anche se, a ritrovarsi più facilmente in difficoltà, è chi non dispone di una rete sociale sufficientemente ampia, chi ritiene di non poter contare sul sostegno di parenti e amici, chi si sente solo.

Ma quali sono le cause dell’Holiday blues? «In primo luogo bisogna considerare la pressione sociale che caratterizza il periodo delle feste», spiega Eliometri. «A Natale – tra addobbi, vetrine colorate e cene obbligate – ci si aspetta che tutti stiano bene e si divertano. Da ciò può scaturire una certa ansia. Inoltre le feste coincidono con la fine dell’anno, tempo di bilanci non sempre positivi, di confronti tra gli obiettivi che ci si era fissati e i risultati conseguiti durante gli ultimi 12 mesi. C’è anche chi vive le festività con molta nostalgia, ripensando alla propria infanzia e alla spensieratezza ormai perduta che caratterizzava le giornate». A questo si aggiunge, come detto, la solitudine di alcuni o, al contrario, l’obbligo di trascorrere del tempo – misure anti-Covid permettendo – con parenti che non si ha il desiderio di incontrare. Un altro elemento da considerare – nel caso di persone integrate nella società, con una vita strutturata – è che durante le feste la quotidianità si interrompe: il lavoro cessa, i ritmi di sonno e veglia vengono stravolti, l’alimentazione si trasforma. Anche questi cambiamenti possono causare un certo malessere, sottolinea la psichiatra.

Malessere che in alcuni casi si può sommare al Winter blues, letteralmente depressione invernale, un disturbo «fisiologico» correlato alla mancanza di luce che caratterizza i mesi più freddi dell’anno. «Sembrerebbe che la diminuzione delle ore diurne porti a un aumento della proteina SerT, la quale trasporta la serotonina lontano dai luoghi utili. Quindi, semplificando, i livelli dell’ormone del buonumore nell’organismo scendono, con conseguenze facilmente immaginabili». Nel disturbo dell’umore stagionale prevale l’ipersonnia e l’iperfagia, specifica l’esperta: le persone che ne soffrono tendono a dormire e mangiare di più (soprattutto carboidrati e zuccheri che sono degli stimolanti, precursori della serotonina), al contrario di alcune forme depressive in cui si tende a fare il contrario.

Holiday blues e Winter blues non riguardano tutti. Ci sono persone più sensibili di altre per motivi congeniti, caratteriali, famigliari, legati alla rete sociale ecc. Certo è che tutti viviamo un momento di incertezza legato all’evoluzione della pandemia, rimarca Eliometri, la quale ha avuto un forte impatto psicologico anche in chi prima del 2020 stava bene. Pensiamo al malessere derivato dall’impossibilità di progettare a lungo termine, dall’isolamento che un po’ tutti abbiamo sperimentato, dal fatto di non poter incontrare gli amici (specie durante il lockdown) o di poterli vedere con tutta una serie di accorgimenti che tolgono spontaneità ad ogni gesto. Inoltre molte persone che sono alle prese con una malattia mentale a causa del Coronavirus non hanno potuto ricevere gli adeguati trattamenti sia dal punto di vista farmacologico, sia da quello riabilitativo con risultati davvero pesanti.

Tornando al Winter blues, chiediamo all’esperta qualche consiglio per contrastare la malinconia e l’inerzia. «Le ricette prestabilite non mi piacciono», chiarisce subito Eliometri. «E, considerazione personale, anche gli animali in inverno rallentano. Per cui, da una parte e fino ad un certo punto, questa sorta di rallentamento, il bisogno di starsene più tranquilli, va accolto e accettato. Non deve essere necessariamente problematizzato. Un periodo a basso regime può servire per recuperare le energie. D’altra parte è necessario monitorare la situazione in modo che, se la persona perde lo slancio vitale in modo significativo, si possa intervenire in tempo». Per il resto sarebbe buona cosa cercare di tenersi attivi, nonostante la fatica: «Chi è in movimento produce endorfine, sostanze chimiche prodotte dal nostro cervello responsabili del buonumore». Aiuta anche mantenere un ritmo di vita regolare, assumere degli integratori specifici come il triptofano (un aminoacido essenziale precursore della serotonina e della melatonina, coinvolta nella regolazione dei ritmi del sonno) e sottoporsi alla terapia della luce (sedute giornaliere con lampade apposite che stimolano il benessere generale). Senza dimenticare che se il disturbo rimane importante è necessario rivolgersi a uno specialista.


Quei Natali trascorsi al «Neuro»

Fino agli anni Settanta la situazione all’Ospedale neuropsichiatrico cantonale era desolante ma poi arrivò il Club 74
/ 20.12.2021
di Romina Borla

Mentre in città si scatena la corsa agli ultimi regali, e nelle cucine fervono i preparativi per la cena della vigilia, una signora attende impaziente l’arrivo del figlio nel parco di Casvegno, a Mendrisio (che fa parte del complesso dell’Organizzazione sociopsichiatrica cantonale). La abbraccerà stretta facendole dimenticare i mostri che le tolgono sonno ed energie. Le racconterà di un mondo che non conosce più. La riporterà finalmente a casa. È da giorni che si prepara con cura. Ha scelto il vestito più bello. Si è pettinata. Ha messo in una piccola borsa una sciarpa rossa. Per lui. All’ultimo, però, una telefonata infrange tutti i sogni. «Un imprevisto… Sarà per la prossima. Buon Natale». Già, buon Natale, mentre solitudine e tristezza dilagano tra gli alberi e i vialetti vuoti.

A ricordare l’episodio è Giuseppe Mariconda, psichiatra del Luganese per decenni caposervizio della Clinica psichiatrica cantonale (Cpc), sempre in prima linea ogni dicembre. «Lavoravo spesso durante le feste», ci racconta. «Un periodo in cui si notava un aumento del malessere degli ospiti. Più in generale durante le festività molte persone conoscono un abbassamento del tono dell’umore. Ma mentre chi è inserito nella società può reagire, magari aderendo a varie manifestazioni di aggregazione, chi vive in istituto ha più difficoltà a farlo e si sente ancora più abbandonato. Se poi la rete famigliare non si attiva le giornate tendono a riempirsi di amarezza e disperazione».

Fortunatamente – spiega il nostro interlocutore – alla Cpc, che allora si chiamava Ospedale neuropsichiatrico cantonale (Onc), o più comunemente «Neuro», si mettevano in atto una serie di strategie e presidi per cercare di contrastare la tendenza. «Uno di questi si chiamava Club 74, ed è stato formalmente istituito nel 1974 da Ettore Pellandini, un formidabile animatore dell’Onc. Questo club dei pazienti aveva (e ha ancora, visto che continua la sua attività) lo scopo di coinvolgere i degenti nella pianificazione della giornata – anche quelle di Natale e Capodanno – e nell’organizzazione di attività sociali, culturali e ricreative (momenti di arte, musica e movimento, lavori utili all’interno e all’esterno della struttura ecc.)». Attività che assumevano finalità terapeutiche, riabilitative e di reinserimento sociale.

«Il Club 74 – sottolinea Mariconda – era una maniera efficace di esorcizzare gli aspetti negativi della vita in istituto, ritrovando una socialità e un’affettività perdute. L’iniziativa era nelle mani dei pazienti, i quali da vittime passive si trasformavano in interlocutori attivi, responsabili dell’andamento delle loro giornate. E così riuscivano a gestire meglio le emozioni negative, passando dall’amarezza della solitudine a una certa euforia. Si trattava di una strabiliante forma di cura che si ispirava ai principi della Psicoterapia istituzionale di origine francese, in particolare a Jean Oury e alla clinica La Borde a Cour-Cheverny, nella Valle della Loira. Psicoterapia istituzionale che proponeva una ristrutturazione radicale di quelli che allora si chiamavano manicomi e cliniche di salute mentale».

Nel saggio L’Ospedale neuropsichiatrico cantonale di Mendrisio 1898-1978. Passato, presente e prospettiva dell’assistenza socio-psichiatrica del Cantone Ticino (edito dal Dipartimento opere sociali nel 1978) si parla diffusamente del Club 1974 e di esperienze simili nate in seguito sul territorio cantonale: «Il Club 74 rappresenta oggi uno spazio autonomo, anzi una catena di spazi che i pazienti gestiscono (bar analcolico, biblioteca, teatro), come pure una struttura di animazione della socio ergo e ludoterapia». Nel libro è riportato anche il punto di vista di alcuni degenti: «Formiamo una comunità che, giorno dopo giorno, produce, parla, ride, litiga, comunica, discute, si aiuta. Siamo tutti d’accordo sulla validità di questa terapia, perché di terapia si tratta: per guarire è importante sentirsi sempre meno pazienti e più persone». «Tra noi (…) c’è chi si ricorda la monotonia delle sue giornate quando il Club non esisteva, giornate passate sempre in camera, orari rigidi, impossibilità o quasi di incontri con degenti di altri padiglioni. Siamo convinti che, del grande cambiamento avvenuto in questi ultimi anni all’ospedale, ci sia anche il nostro piccolo contributo. La nostra sede è sempre aperta già dalle 8 del mattino fino all’ora di cena, le nostre attività ricreative non si sono svolte solo di pomeriggio ma anche di sera, con cenette, festicciole ecc. Questo è stato di stimolo, anche per i pazienti che non lo potevano fare, a uscire».

Il Club 74 ha contribuito in maniera importante alle riforme della sociopsichiatria ticinese, conferma Mariconda. Ancora negli anni Settanta la situazione al «Neuro» era piuttosto desolante, molto lontana da quello che succedeva nella clinica La Borde: trattamenti con l’insulina, isolamento, contenzione, padiglioni chiusi, camera deliri, elettroshock. «L’Ospedale neuropsichiatrico cantonale era un luogo di emarginazione e stigmatizzazione. Un luogo che non accoglieva solo persone affette da gravi disturbi psichici ma anche altre tipologie di ospiti: persone emarginate, ragazze madri, tossicodipendenti, persone con comportamenti delinquenziali ecc. Dentro tale sconfortante contesto si muovevano a fatica i primi tentavi di terapie psicosociali».

«Sotto la direzione ospedaliera di Elio Gobbi si sviluppò un dibattito che portò alla Legge cantonale sull’assistenza sociopsichiatrica del 1983, che contribuì a restituire dignità e diritti a chi soffre di un disagio mentale», afferma Claudio Mustacchi, docente-ricercatore del Dipartimento economia aziendale, sanità e sociale della Supsi in uno scritto che si può trovare online dedicato a Ettore Pellandini («Ettore Pellandini: l’attore del cambiamento»). «Un dibattito favorito dalle evidenze che Ettore Pellandini – animatore socioterapeutico, agli occhi di molti stravagante – andava producendo: discutendo coi “matti”, recitando con loro, ascoltando audiodischi, nominandoli responsabili di un club non esclusivo ma aperto a tutti, mostrando l’importanza di un sapere sociale e culturale, un sapere non medico, fondamentale per la cura della sofferenza mentale». Un nuovo approccio a cui ha aderito anche Mariconda che ha portato sollievo a molte persone malate, non solo nel periodo delle feste.