John Leach è psicologo e ricercatore all’Università di Portsmouth, in Gran Bretagna. Si occupa di sopravvivenza: da oltre vent’anni cerca di capire perché alcune persone restino in vita nei campi di prigionia, situazioni di guerra, dopo naufragi, incidenti aerei e disastri naturali, mentre altre, invece, muoiano, pur senza avere traumi fisici. Oltre all’esperienza accademica ha un passato da militare e ha tenuto corsi di sopravvivenza nel deserto, nella giungla, nelle zone polari e workshop con simulazioni di rapimenti. Il suo interesse per le condizioni estreme l’ha portato a studiare la «morte psicogena», il fenomeno per cui, in situazioni di grave stress traumatico, può succedere di sviluppare un’apatia estrema, perdendo le speranze e rinunciando a vivere, con un abbandono che porta al decesso, senza che ci siano cause organiche. Stando alle cronache del tempo, nel 1607 i condannati che vivevano nell’insediamento di Jamestown, colonia inglese della Virginia, morivano di «melanconia». Sulle navi negriere gli schiavi smettevano di vivere per la disperazione. Ad Auschwitz i prigionieri dei campi di concentramento si sdraiavano, fumavano di nascosto l’ultima sigaretta e trapassavano nell’arco di quarantotto ore.
Fino a poco tempo fa, l’idea che la mente potesse uccidere il corpo non era presa sul serio nei circoli medici occidentali per mancanza di evidenze scientifiche. Non era accettato che l’atto di arrendersi – che niente ha a che fare con il suicidio o con la depressione – potesse essere fatale. «In realtà è qualcosa di cui si è sempre parlato fin dal Medioevo. Pensiamo al crepacuore oppure alle storie delle persone sposate da anni che muoiono a distanza di poco tempo l’una dall’altra», spiega Leach ad «Azione». Tra i primi ad occuparsi di questo ambito, il fisiologo americano Walter Cannon. Negli anni ’40 del secolo scorso scrisse un articolo, diventato celebre, in cui analizzava la «morte vudù», con una raccolta di esempi da tutto il mondo di persone che morivano in seguito a una maledizione. La suggestione di avere ricevuto il malocchio diventava talmente forte da ossessionarle e spingerle a lasciarsi andare. Cannon credeva che la superstizione non c’entrasse e che dietro ai decessi ci fosse una spiegazione razionale.
Il lavoro di Leach raccoglie questa intuizione: «La morte psicogena si verifica senza che ci siano malattie, ferite o altre cause organiche. Osservando quel che accade alle persone in circostanze disperate, ho notato che a livello cerebrale c’è un graduale esaurimento della produzione di dopamina che sembra avvenire attraverso disfunzioni dei circuiti fronto-sottocorticali del cervello». La dopamina ha un ruolo fondamentale nella motivazione, serve anche a determinare le reazioni ai cambiamenti, attesi o imprevisti, ed è essenziale per far fronte al mondo esterno. Chi ha livelli di dopamina bassi tende all’apatia e spesso fatica a compiere azioni di routine. Nello specifico, l’ipotesi dello psicologo è che avvenga un cortocircuito tra le due aree principali di produzione della dopamina. «Per restare in vita abbiamo bisogno di obiettivi a breve e a lungo termine. Se ci troviamo in condizioni estreme oltre alla capacità di trovare cibo, acqua e protezione dal freddo o dal caldo eccessivi, serve la motivazione, bisogna prendere in prestito la speranza dal futuro».
La personalità non sembra essere un fattore decisivo nelle situazioni analizzate dallo psicologo britannico. Come ha scritto in un articolo scientifico pubblicato su «Medical Hypotheses», caratteri tra loro molto diversi dimostrano lo stesso livello di vulnerabilità; alcuni individui considerati forti nella vita di tutti i giorni sconcertano per il modo in cui muoiono rapidamente. A contribuire alla capacità di sopravvivenza sembra esserci l’interazione tra uno specifico corredo genetico e un’esperienza precedente di adattamento allo stress.
Ci sono quattro fasi che precedono la morte psicogena: l’isolamento sociale, in cui ci si ritira in sé stessi; l’apatia, il disinteresse a lottare per la sopravvivenza; l’abulia, la mancanza di motivazioni accompagnata da una riduzione delle risposte emotive; l’acinesia psichica, un profondo stato di inerzia che rende insensibili perfino al dolore. La maggior parte di chi entra nella spirale neurologica della «sindrome disesistenziale», per usare la definizione di Leach, ne emerge prima di toccare il fondo, riuscendo ad adattarsi. Ma i pochi che non lo fanno possono trovarsi al quinto stadio: la morte psicogena. La luce scompare dagli occhi e in due giorni circa le funzioni vitali cessano.
Il 20 maggio Leach terrà un discorso alla British Psychological Society Conference (bps.org.uk) in cui spiegherà le sue nuove scoperte. E ricorda che il suo ambito di studio non è così lontano dalla nostra esperienza, considerando soprattutto gli ultimi due anni di pandemia: «L’importanza della motivazione nella sopravvivenza è emersa chiaramente durante il primo e il secondo lockdown. Soltanto in Gran Bretagna c’erano tre milioni e mezzo di persone intrappolate nella propria casa, da sole, perché erano single. Si è visto un calo rapido: hanno smesso di radersi ogni giorno, rimanevano in pigiama fino all’ora di pranzo, faticavano ad alzarsi dal letto la mattina e, in generale, ad andare avanti con le loro vite. Un comportamento che corrisponde molto da vicino a quello nei campi di prigionia, direi praticamente identico».