Christian è un ingegnere forestale di 36 anni e vive in Ticino insieme alla moglie e ai tre figli. Lo incontriamo al Centro svizzero per paraplegici (CSP) di Nottwil, dove ci siamo dati appuntamento per visitare la clinica nella quale dodici anni or sono ha soggiornato per sei mesi, a causa delle conseguenze di un infortunio che gli ha cambiato la vita: «Ero a un passo dalla laurea in ingegneria forestale e, durante un’uscita scolastica, è ceduta la piattaforma sulla quale ci trovavamo noi allievi. Sono caduto nel vuoto, ho subìto la lesione del midollo spinale a livello della prima vertebra lombare». Christian ha accettato di buon grado il nostro invito ad accompagnarci: «Torno sempre volentieri qui a Nottwil, luogo che reputo un po’ uno spartiacque fra un “prima” e un “dopo” della mia vita».
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS, 2015), ogni anno da 250mila a 500mila persone subiscono una lesione midollare, la maggior parte delle quali è traumatica anche se i tassi di incidenza variano largamente nel mondo da 13 a 53 casi per milione di abitanti. In Svizzera, ogni anno circa 200 persone restano vittime di una para o tetraplegia in seguito a un infortunio (incidenza di circa 13 unità per milione di abitanti), e il Gruppo Svizzero Paraplegici rileva che un giorno sì e uno no una persona subisce una lesione midollare rimanendo paraplegica, con un rapporto fra uomini e donne di circa 5 a 1, variabile per età.
«In genere non si riflette sul fatto che una lesione midollare significa molto più che stare seduti su una carrozzina. Essa comporta infatti importanti limitazioni nella vita di chi ne rimane vittima: la persona non può più camminare e solo il paraplegico può muovere ancora le braccia (mentre il tetraplegico no), ma pure altre funzioni del sistema vegetativo sono interessate da queste lesioni, come vescica, cuore e vasi sanguigni, intestino e apparato riproduttivo ad esempio». A parlare è il dottor Michael Baumberger, specialista in medicina fisica e riabilitativa che dal 2005 è primario di Unità spinale e Medicina riabilitativa nel Centro svizzero per paraplegici a Nottwill. Baumberger sottolinea come un tempo le lesioni midollari erano associate a un alto tasso di mortalità, mentre: «Oggi, nei Paesi come la Svizzera, una lesione midollare non significa più la fine di una vita felice e degna di essere vissuta oggigiorno l’aspettativa di vita delle persone mielolese è simile a quella delle persone senza mielolesione. Ciò è dovuto a diversi fattori come una migliore assistenza medica, a cominciare dalla fase d’emergenza (essenziale per un migliore recupero delle funzioni neurologiche), che si estende all’assistenza sanitaria e riabilitativa per le quali interdisciplinarietà, tecnologie, apparecchi di respirazione moderni e sedie a rotelle adattate fanno la differenza, insieme alla reintegrazione sociale nel ritorno a casa dopo la fase riabilitativa (da sei a nove mesi) vissuta qui al CSP».
L’OMS definisce questo avvenimento come qualcosa che cambia la vita, provoca gravi alterazioni sensitive, motorie e altre menomazioni neurologiche, e parla della lesione midollare traumatica come «un passaggio in pochi secondi da una condizione di buona salute a una disabilità permanente».
Le conseguenze sono plurime secondo il livello del midollo spinale leso, e le cause non sono riconducibili sempre solo all’origine traumatica, sebbene queste in Svizzera restino le più comuni, spiega Baumberger: «Esistono forme di paraplegia specifiche per gruppi di età, come la spina bifida (congenita) o la stenosi spinale (ndr: restringimento del canale vertebrale) negli anziani. Esistono anche paralisi (mielolesioni) conseguenti a traumi da parto (rarissime in Svizzera ma più comuni altrove) e infine lesioni midollari dovute ad altre patologie».
Nel parlare della propria esperienza, Christian ricorda poco dell’incidente e delle sue sensazioni nell’immediato: «Sono stato operato per stabilizzare la colonna, poi sono stato trasferito subito qui a Nottwil». Baumberger ribadisce che la prognosi è strettamente legata a una presa a carico adeguata del paziente già dal momento dell’infortunio. Riferisce pure che il paziente nella fase iniziale subisce «una sorta di black out in cui la funzione cognitiva viene scossa (il cervello percepisce solo la parte sensibile del proprio corpo) e recuperata solo in seguito, quando il paziente dovrà prendere nuovamente coscienza della sua parte paralizzata».
Tale complessa e interdisciplinare presa a carico comprende diverse fasi come abbiamo modo di constatare visitando i differenti comparti della struttura (dalle camere delle cure intensive, ai reparti di fisioterapia, palestra, piscina, ergoterapia e via dicendo) e come il dottore ci illustra, ribadendo che «la riabilitazione inizia sul luogo dell’incidente, durante l’intervento di salvataggio, quando è di estrema importanza non causare ulteriori danni. Nei primi momenti è essenziale, tra l’altro, una buona gestione della pressione arteriosa finalizzata a evitare ulteriori lesioni da inadeguata perfusione sanguigna del midollo, sempre con lo scopo di favorire la migliore prognosi possibile».
Poi, pure la scelta del percorso riabilitativo del paziente è individualizzata, passo per passo, secondo il tipo di lesione: «La fase acuta è il periodo di trattamento iniziale dopo la paralisi: è a quel punto che creiamo le basi per le successive fasi riabilitative attraverso una diagnosi corretta, il trattamento delle lesioni, la stabilizzazione delle funzioni vitali, lo svuotamento di vescica e intestino, e l’inizio di un programma riabilitativo speciale».
Baumberger elenca così il prosieguo del programma terapeutico: «Nella fase di stabilizzazione clinica il paziente impara la gestione del corpo paralizzato e diventa gradualmente più mobile e indipendente. Iniziano qui i preparativi in vista della dimissione e del reinserimento della persona nel suo ambiente sociale e professionale. Nella fase di consolidamento, il paziente comincia ad assumersi la responsabilità della sua dimissione, sostenuto da un’équipe di specialisti in caso di problemi o complicazioni».
A questo punto, ci viene spiegata l’esistenza di una comunità abitativa esterna al CSP nella quale possono andare a vivere i giovani dai 16 ai 25 anni per un periodo variabile fino a un anno: «Una comunità in cui testare la propria indipendenza, migliorare le proprie sicurezze, l’autostima, cominciando ad avere quei contatti graduali con il mondo esterno; questo prima di rientrare definitivamente al proprio domicilio».
Un percorso, ribadisce lo specialista, individualizzato e con risultati dipendenti dalla gravità della lesione: «Ogni persona ha un modello di lesione diverso: dobbiamo capire quali muscoli e quali funzioni restano ancora intatte, quale sensibilità è alterata e come funzionano i singoli organi, adeguando il progetto riabilitativo all’evoluzione della mielolesione». Ribadisce che l’équipe di cura è composta non solo da medici, ma pure da ergoterapisti, logopedisti, fisioterapisti, infermieri, psicologi e altri specialisti.
Il supporto psicologico di paziente e famigliari è fondamentale per affrontare nel modo più consono possibile questo trauma: «Ogni paziente attraversa diversi momenti: incredulità, rabbia, patteggiamento, dolore e convivenza con la nuova condizione. La maggior parte di loro non assume psicofarmaci, ma riceve un adeguato sostegno dagli operatori e dagli psicologi». Le nuove sfide che attendono questi pazienti sono il rientro in società, in famiglia e al lavoro, e poggiano sulla convivenza con la nuova condizione. I pazienti soffrono spesso di dolori neuropatici e, anche in questo caso, la gestione ottimale del sintomo passa per un sostegno psicologico».
Infine, arriva il momento della dimissione: «Terminata la prima riabilitazione il paziente ha acquisito le competenze per condurre una vita indipendente». Baumberger ricorda inoltre che il centro offre a suoi pazienti la possibilità di essere seguiti a lungo termine in ambiente ambulatoriale, in collaborazione con i medici di famiglia: «Un programma riabilitativo specifico a lungo termine viene consigliato al fine di mantenere e migliorare lo stato riabilitativo e prevenire complicanze».
Al rientro a casa, Christian ha terminato i suoi studi, si è sposato, ha iniziato a lavorare e sono nati tre bambini: «Piano piano ho imparato a conoscermi, a “sentirmi”, ho imparato anche a sopperire al mio bisogno di movimento e oggi vado a sciare (ndr: ci ha spiegato com’è fatto il suo sci, una sorta di capsula con cui dice di sentirsi come tutti gli altri sciatori), e pratico hand-byke con grande soddisfazione!».
Anch’egli si sottopone a controlli annuali regolari per i quali può scegliere di recarsi a Nottwil, oppure, da ticinese, a Bellinzona, all’ORBV, dove è attivo l’Ambulatorio Mielolesi: un progetto fortemente voluto dall’infermiera specializzata in medicina intensiva Ilaria Perren, anch’essa mielolesa, che è riuscita a rendererlo operativo cinque anni or sono: «In Ticino ci sono 200-250 persone mielolese a causa di un infortunio, a cui si aggiungono altri pazienti le cui cause del problema risalgono a malattie neurodegenerative o altro. Sono persone che spesso hanno qualche comprensibile difficoltà a recarsi Oltralpe: i mielolesi devono avere riguardo per lo svuotamento vescicale, intestinale, non tutti guidano, spesso necessitano di essere accompagnati e le colonne autostradali, l’intera giornata da mettere a disposizione possono essere pesanti da sostenere».
Al momento, «anche grazie all’aiuto della direzione ORBV che ha creduto nel progetto», l’Ambulatorio di Bellinzona è realtà ed è aperto una volta al mese, in collaborazione con il dottor Michael Baumberger del Centro svizzero per paraplegici e della sua équipe, spiega Ilaria, mentre in sede gode della collaborazione dell’urologo con formazione approfondita in neuro-urologia Julien Renard, viceprimario di Urologia all’ORBV, il quale ribadisce la complessità della presa a carico dei pazienti mielolesi che necessitano di un’estrema personalizzazione delle cure: «L’assenza di sensibilità, e un funzionamento potenzialmente diverso degli organi interni interessati dalla lesione, portano facilmente a complicazioni come infetti urinari o problemi vescicali, rendendo ad esempio indispensabili dei controlli serrati».
Accoglienza, competenze e la prossimità dell’Ambulatorio mielolesi sono dunque un grande vantaggio per i pazienti ticinesi: incentivano la regolarità dei controlli e assicurano una prima presa a carico per ogni altra emergenza che sarà sempre valutata collegialmente con gli specialisti di Nottwil. A conferma di ciò, Renard spiega che «il paziente può beneficiare di una valutazione fisiatrica mirata a prevenire le complicanze tipiche dei mielolesi, ergoterapica, infermieristica, urologica e neurologica; in base all’esito di questi accertamenti sarà discusso insieme il prosieguo del percorso medico e terapeutico».
Dal canto suo, Ilaria Perren vede realizzato un progetto che oggi festeggia i cinque anni di attività e ne medita un ampliamento. Un’idea per la quale, dice, è valsa la pena di spendere una buona dose di fatiche: «Ci rivolgiamo alle persone mielolese a seguito di malattia o infortunio, e a chi è affetto da malattie neuromuscolari congenite o acquisite, offrendo un aiuto rapido e mirato». Parla di una vera missione «per agevolare l’inserimento nella società, aiutando a mantenere e migliorare lo stato di salute come pure le necessità quotidiane».
Al Centro paraplegici di Nottwil come all’Ambulatorio Mielolesi dell’Ospedale regionale di Bellinzona abbiamo trovato il concetto di «inclusione e partecipazione»: comun denominatore con l’OMS della presa a carico, della riabilitazione e del reinserimento della persona mielolesa.
Il sorriso e la disponibilità di Christian a raccontarsi, l’esperienza del dottor Julien Renard e dell’infermiera Ilaria Perren a Bellinzona e le grandi competenze e umanità del dottor Michael Baumberger sono riassumibili nelle parole di commiato di quest’ultimo: «Un tempo la disabilità era un problema corporeo, oggi non più: la disabilità viene cancellata dal momento in cui la persona può esser partecipe della vita, anche con l’ausilio di mezzi ausiliari. Perché non bisogna guardare la disabilità, ma la persona che abbiamo davanti!».