Fra un mese arriva ufficialmente la primavera (anche se certe temperature pare l’anticipino di anno in anno), momento in cui la neve e il ghiaccio fondono. Un processo naturale che sta però interessando sempre più anche zone e regioni dove questi elementi resistevano qualche settimana o mese in più, o dove addirittura questo non accadeva.
Un fenomeno legato ai cambiamenti climatici e che concerne anche i terreni in cui il suolo è perennemente gelato, il permafrost o anche permagelo. Il termine deriva dall’inglese perma(nent), permanente, e frost, gelato, ed è presente soprattutto nelle regioni artiche, in prossimità dei poli, ma anche in alta montagna a partire da quote che variano molto a seconda dell’esposizione. Nella definizione non è presente il termine «ghiaccio» poiché, come ci spiega il geografo Cristian Scapozza, ricercatore SUPSI, la Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana «il permafrost si può riscaldare o degradare, ma non fondere, al contrario del ghiaccio in esso contenuto che invece effettivamente passa dallo stato solido a liquido».
In Svizzera, indicano i dati pubblicati dall’Istituto per lo studio della neve e delle valanghe SLF di Davos, il permagelo è presente su circa il cinque per cento del territorio, tipicamente nei detriti rocciosi situati ad altitudini elevate e nelle pareti rocciose al di sopra dei 2500 metri circa. «Anche se il permafrost non è visibile direttamente – spiega Jeannette Nötzli dell’SLF – esistono particolari forme di terreno che segnalano la sua presenza, come per esempio il ghiacciaio roccioso, ossia un ammasso di detriti di roccia e ghiaccio, non visibile in superficie, che fluisce verso valle a causa della deformazione del ghiaccio in esso contenuto».
In Svizzera si studia il permagelo da oltre quarant’anni e nelle Alpi svizzere, in oltre venti luoghi, sono stati trivellati dei fori per il posizionamento di strumenti atti a rilevare la temperatura e studiare il sovrastante manto nevoso. «Le misurazioni vengono trasmesse tramite una rete mobile o memorizzati e poi raccolti durante le regolari visite sul campo», precisa Jeannette Nötzli attiva nel gruppo di lavoro sul permafrost del SLF e coordinatrice di PERMOS, la rete d’osservazione svizzera che è responsabile del monitoraggio del permafrost sul territorio elvetico.
I dati ottenuti forniscono tuttora importanti informazioni sullo stato di questi terreni che, pur non rappresentando un pericolo naturale, riscaldandosi possono destabilizzarsi, innescando colate detritiche, crolli di roccia o reptazioni della parte superficiale del terreno, ossia il movimento impercettibile delle particelle verso valle. «Spesso i problemi non avvengono con il passaggio a temperature sopra lo zero, che implicano, se presente, la fusione del ghiaccio, ma con il riscaldamento del ghiaccio stesso, che verso i –0,5°C diventa molto plastico e favorisce delle importanti deformazioni e quindi il movimento dei detriti o della roccia dove esso è contenuto», spiega Scapozza.
Proprio per garantire la sicurezza degli edifici edificati in alta montagna, l’istituto di ricerca di Davos collauda nuovi metodi di costruzione nel permafrost montano e redige raccomandazioni per gli addetti ai lavori. Con l’aiuto di diversi strumenti di misura viene inoltre rilevata la dinamica delle pareti e dei ghiacciai rocciosi, sempre con l’obiettivo di comprendere meglio i processi e individuare tempestivamente eventuali pericoli.
Essi sono posizionati sia nelle falde di detrito contenenti ghiaccio, sia nelle pareti o nei ghiacciai rocciosi, ma anche nelle vicinanze di alcuni edifici costruiti in alta montagna. Si misurano le temperature all’interno dei fori e sulla superficie del terreno, l’altezza del manto nevoso, la temperatura dell’aria e l’irradiazione solare con l’aiuto di stazioni meteorologiche automatiche.
«Il permafrost non è visibile – aggiunge Jeannette Nötzli – e quindi, soprattutto i movimenti di reptazione del permafrost, possono essere quantificati tramite il confronto di immagini aeree e satellitari. Le variabili a lungo termine come le temperature superficiali o del sottosuolo, i cambiamenti nel contenuto di ghiaccio, i parametri meteorologici o la profondità della neve, ma anche le misurazioni terrestri per determinare la velocità di reptazione dei ghiacciai rocciosi sono acquisiti sul terreno grazie ad adeguati strumenti».
I rilevamenti servono a studiare gli effetti del clima sui suoli perennemente gelati e a prevedere meglio i pericoli o i danni agli edifici. Oltre ai mutamenti a lungo termine, vengono però analizzati anche gli effetti d’eventi estremi, come quelli dell’estate torrida del 2015. Dati che servono anche per simulare le future evoluzioni delle temperature nel suolo con l’aiuto di modelli numerici.
Ma come sta il permagelo in Svizzera? «È difficile fare una generalizzazione sullo stato del permafrost sulle Alpi – spiega l’SLF di Davos – perché le temperature del suolo e i contenuti di ghiaccio possono variare notevolmente a seconda del sito e delle condizioni locali. Tuttavia è confermato che il permafrost si sta tendenzialmente riscaldando e che in alcuni punti questo è causa di perdite di ghiaccio, reptazione dei pendii e instabilità degli edifici costruiti in alta montagna. Particolarmente colpite risultano le pareti rocciose, perché a causa della loro buona conducibilità termica reagiscono rapidamente ai cambiamenti climatici». Una tendenza che le estati torride estreme possono solo accelerare.
Alcuni dei fori trivellati dall’SLF fanno parte della citata rete PERMOS a cui aderiscono anche gli istituti di geografia delle Università di Zurigo e di Friborgo, di ingegneria geotecnica del Politecnico federale di Zurigo, della dinamica della superficie terrestre dell’Università di Losanna, così come l’Istituto scienze della Terra della SUPSI.
Le riprese aeree che coinvolgono alcuni siti d’osservazione rappresentano un’importante base di dati per le analisi fotogrammetriche della cinematica dei ghiacciai rocciosi (il movimento) e quindi anche per la documentazione dei cambiamenti geomorfologici, idrologici e biologici. Queste indagini fotografiche permettono di misurare lo spostamento della superficie e coinvolgono una quindicina di stazioni distribuite nella catena alpina svizzera, tra cui due in Ticino, gestite dalla SUPSI e dove avviene pure il rilevamento delle temperature della superficie del suolo. Si trovano in zona Stabbio di Largario in Val Soi (Valle di Blenio), a 2300-2550 metri di altitudine, e sul versante nord-orientale della Cima di Piancabella in Valle di Sceru (Val Malvaglia), a 2450-2550 metri d’altitudine.
Anche la SUPSI si occupa quindi di permagelo e gestisce una rete di monitoraggio in otto ghiacciai rocciosi, finanziata da PERMOS, dalla SUPSI e dal Museo cantonale di storia naturale di Lugano. Grazie ai dati raccolti nel corso dei primi tredici anni di monitoraggio sistematico in Ticino, è stato possibile stabilire un legame significativo tra l’aumento della temperatura della superficie del suolo e la velocità di spostamento dei ghiacciai rocciosi, come conferma Cristian Scapozza, responsabile della ricerca: «Esatto, e questo legame è esponenziale, segno che il ghiaccio del permafrost si sta riscaldando e degradando, favorendo un’accelerazione dei movimenti di scorrimento verso valle dei ghiacciai rocciosi».
Lo studio è svolto con diversi strumenti: GPS differenziale, fotografie aeree o terrestri e immagini da droni al fine di rilevare la velocità di spostamento dei ghiacciai e l’evoluzione storica del movimento.
Il monitoraggio della temperatura della superficie del suolo avviene invece grazie a circa 40 sensori autonomi di temperatura sparsi nelle Alpi ticinesi, mentre per l’evoluzione dei parametri meteorologici, la SUPSI si basa sulle stazioni di MeteoSvizzera di Robièi e del Matro, non essendoci stazioni meteo in tutti i luoghi. Sul ghiacciaio roccioso di Stabbio di Largario avvengono inoltre misure in continuo del movimento grazie a due antenne GPS fisse, gestite in collaborazione con la Scuola politecnica federale di Zurigo.
Le misure nelle Alpi ticinesi sono quindi focalizzate sulla temperatura della superficie del suolo e sulla velocità orizzontale di superficie degli otto ghiacciai rocciosi, parametri che hanno permesso di stimare lo stato di temperatura e il contenuto di ghiaccio del permafrost e valutare il suo adattamento alle fluttuazioni delle temperature dell’aria sempre più calde: «Vengono stilati dei rapporti biennali e l’ultimo, dedicato al periodo 2018/2019, è in fase di redazione. Rispetto agli anni scorsi, dalle ultime misurazioni emerge un notevole aumento delle temperature della superficie del suolo negli ultimi due anni, con un conseguente aumento della velocità dei ghiacciai rocciosi monitorati», conclude Cristian Scapozza.