Resilienza, in campo ambientale, vuol dire anche saper capire l’evoluzione in corso e prevedere le diverse situazioni locali. La distinzione va fatta anche tra ciò che riguarda le zone fortemente urbanizzate e le zone rurali, più discoste dai centri del potere economico e commerciale. Il discorso ambientale allora si intreccia con la visione sociale del problema, con l’impatto sulla popolazione, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo ma non solo. Mentre si considera l’evoluzione della situazione ambientale legata ai cambiamenti climatici bisogna tener conto di diversi fattori, se si vogliono prevedere azioni e correttivi che ne possano mitigare l’impatto.
Facciamo un esempio: l’innalzamento dei mari. È in atto, ci sono misure che lo confermano; per ora non spaventa ancora perché è in una fase di piccola crescita e varia a seconda delle zone geografiche. Dove si riduce a pochi centimetri la sua pericolosità non sembra evidente, ma è necessario saper guardare al futuro. I dati degli ultimi 25 anni davano un accrescimento medio del livello dei mari fissato a 3 millimetri all’anno. Studi più recenti denunciano un’accelerazione del processo di quasi un millimetro supplementare all’anno. Se la tendenza fosse confermata le acque si alzerebbero di circa 35 centimetri per il 2100. Non è allarmante, ma comunque significativo. L’innalzamento dei mari è indissolubilmente legato allo scioglimento dei ghiacci sulla terra, come quelli dell’Antartide nell’emisfero sud e della Groenlandia in quello nord.
Se interventi umani o altri fattori limiteranno questo scioglimento, anche l’innalzamento dei mari subirà una riduzione. L’evoluzione dipende quindi da molti fattori che si concateneranno. Un livello del mare più alto rispetto al presente produrrà tra l’altro un ingrandimento dell’effetto distruttivo dei fenomeni naturali, per esempio quello delle onde dei maremoti in presenza di forti venti associati ai cicloni. Questi fenomeni ci sono sempre stati, ma si stanno manifestando con maggiore frequenza e violenza. È ormai indubbio che ciò avvenga per il riscaldamento globale in atto sulla Terra. Come fronteggiare le nuove situazioni che si verranno a creare? Dipende da dove ci si trova.
I Paesi Bassi, che per più di un terzo del proprio territorio si trovano addirittura sotto il livello del mare, con la loro esperienza sono il polo di riferimento per quelle grandi città costiere che vogliono prepararsi a fronteggiare eventuali future emergenze. New Orleans chiese aiuto all’Olanda dopo l’uragano Kathrina, dell’agosto 2005, e New York mandò suoi delegati a Rotterdam all’indomani dell’uragano atlantico Sandy, che nell’ottobre 2012 flagellò l’intera costa est degli Stati Uniti, danneggiando particolarmente il New Jersey e New York. L’Olanda per fronteggiare il mare possiede quasi 18mila km di ripari tra dighe, dune e sbarramenti vari e oggi sta operando tenendo conto della possibilità che per il 2100 la sua costa veda un innalzamento delle acque compreso tra i 26 e gli 82 centimetri.
Questa forchetta di misure è ancora molto difficile da quantificare esattamente, tuttavia il fenomeno è aggiornato costantemente dai satelliti europei della serie Sentinel e dagli statunitensi Jason. I loro dati altimetrici costituiscono la base scientifica sulla quale si correggono le previsioni. L’approccio dei Paesi Bassi in questo senso è molto pragmatico: tende a non voler sottomettere i fenomeni naturali ma a lasciare che l’acqua resti dove è possibile lasciarla, senza costruire nuove barriere e adottando soluzioni flessibili e multifunzionali su piccola scala. Studiate le peculiarità del terreno, si sono create zone di esondazione nelle aree golenali dei fiumi (per ridurre le alluvioni), si stanno rinaturalizzando certe zone, si prevede di costruire nuovi edifici adattati alla situazione – si parla addirittura di quartieri galleggianti – si mira a rivedere il sistema idrico urbano e a immagazzinare l’eccesso di acqua piovana in serbatoi ad hoc.
Non è che le loro soluzioni possano essere esportate dovunque così come sono, ma possono dare delle idee. Sulla costa americana, nel New Jersey, dopo il già citato uragano Sandy, ci si è resi conto di aver speculato troppo e troppo vicino al mare. Ora si tende a correre ai ripari cercando di ricomprare dai privati vaste aree di costa e, con interventi statali, far ritirare la gente dalle zone costiere più basse e interessate dalle mareggiate. Con un livello del mare più alto, dove oggi arrivano occasionalmente le inondazioni, domani potranno arrivare regolarmente le maree, bloccando le strade, sconvolgendo le reti energetiche, sommergendo le spiagge più frequentate. Ritirarsi è una forma di resilienza, gradita agli ambientalisti e presa in seria considerazione dai politici locali.
Si tratta di un approccio multidisciplinare al problema, che coinvolge geofisici, esperti climatologi, economisti e sociologi, che sta fornendo previsioni localizzate per interventi mirati immediati e futuri. I sistemi costieri, legati alle maree, sono sempre dinamici e possono rivelarsi instabili: le spiagge difese da strutture rigide si erodono più in fretta di quelle lasciate a se stesse. Continuare a dragare la sabbia alla lunga non serve, perché basta una tempesta a vanificare il lavoro di anni. Ormai si sta rivedendo anche lo sviluppo edilizio velleitario ed eccessivo, figlio dell’aspirazione tutta americana di possedere una casetta in legno sul mare, il più vicino possibile alla spiaggia o addirittura su palafitta sulla spiaggia. L’obiettivo è quello di trasferire le persone e gli immobili nelle zone non a rischio, liberando per un’apertura al pubblico parti del litorale mantenute come spazio ecologico naturale, lasciato ai ritmi e ai capricci della natura senza condizionamenti, utilizzandole per quello che possono offrire.
Inoltre quello di interrompere le frettolose ricostruzioni in quelle zone colpite dove, prima o poi, l’acqua tornerà sicuramente a salire. Nel New Jersey sono state fatte mappe che mostrano quali aree saranno probabilmente inondate dal mare tra il 2050 e il 2100 e dove è prevista una subsidenza dei suoli in zone dove si pensa a uno sprofondamento di 12 centimetri entro il 2050. Diverse università americane stanno occupandosi di studi del genere. Risulta che zone densamente edificate come Woodbridge, non lontano da New York, siano particolarmente vulnerabili quando le sue vie d’acqua si ingrossano perché invase dalle ondate di marea. Ancora più a rischio risultano alcune popolari località balneari come Atlantic City, dove la sparizione della spiaggia è già una minaccia concreta. Saper leggere i segnali di cambiamento, non giudicare una sconfitta il ritirarsi di fronte alla natura e saper rimettere in discussione scelte che ci sembravano vantaggiose, sta diventando un atteggiamento che potrà migliorare la nostra vita.