Quando arriva il momento in cui i figli partono

Il caffè delle mamme – Se ne vanno per studiare, viaggiare o lavorare e il distacco può essere doloroso per i genitori
/ 17.07.2023
di Simona Ravizza

Figli con la valigia: come sopravvivere al distacco di chi parte come apprendista o liceale per uno scambio linguistico in Svizzera o all’estero o come giovane-adulto all’università e per tutti è «tanti saluti e arrivederci»? Al Caffè siamo mamme come tante che hanno scelto di condurre la vita come acrobate cercando il difficile equilibrio tra maternità, vita di coppia e lavoro. Tra alti e bassi. Consapevoli del diritto di dire «Non ne posso più», convinte che non c’è nulla di più bello di una tavola apparecchiata intorno alla quale ognuno racconta la propria giornata con il profumo di sugo, ma allo stesso tempo innamorate, professionalmente impegnate e pronte ogni tanto a dire: «Lo faccio per me» (che sia lo shopping con le amiche o la french manicure). Sempre mamme, spesso mogli, lavoratrici d’obbligo ma anche appassionate, a volte amiche. La vita giocata come una faticosa, ma sorprendente partita a tetris. E, allora, perché fa così male quando i figli partono?

La domanda, a Il caffè delle mamme, è all’ordine del giorno: nella nostra famiglia allargata, che abbiamo soprannominato 7infamiglia, si sono appena passati il testimone la 14enne di ritorno da un anno in una scuola pubblica della Baviera e i gemelli 17enni in partenza per gli Usa (sempre per un anno), il 21enne è all’università a San Gallo, e al quasi 10enne non resta che chiedere: «Chi gioca adesso con me a Monopoli?». Intorno, la questione è la stessa: la mia amica imprenditrice Laura Poretti ai suoi 75mila follower su Instagram confida: «Mai come in questi giorni ho capito quanto sia difficile per un genitore fare volare un figlio, è come se ti togliessero un pezzo di cuore. Ci saremo sempre e comunque – scrive rivolgendosi alla figlia partita per l’estero –, vivremo con te gioie e dolori e se mai dovessi accorgerti che non è la tua strada, non avere paura a dirlo: non sarà un fallimento ma soltanto un cambio di rotta». La scienziata Antonella Viola anche lei su Instagram ammette: «Non è un giorno facile per me. Sto lasciando mio figlio in un’altra città, e non come in passato per vacanza o studio: questa volta esce di casa definitivamente a 23 anni per vivere la sua vita di uomo adulto. So che è una cosa bella, ma non nascondo la nostalgia per la fine di quella che è stata probabilmente la pagina più intensa e bella della mia vita».

Una frase nota del Dalai Lama è: «Dona a chi ami ali per volare, radici per tornare e motivi per restare».

Donare ai figli le ali vuol dire non metterli nella condizione de Il gabbiano Jonathan Livingston (ed. Bur) che per avere l’approvazione della famiglia si sforza di assomigliare agli altri, provando a dedicarsi solo alla ricerca del cibo e quando non ce la fa, e decide di seguire la sua vera natura alla ricerca della perfezione del volo, resta solo.

Sul donare le radici per tornare è illuminante lo psicologo, medico e psicoanalista britannico John Bowlby (Londra, 26 febbraio 1907 – Isola di Skye, 2 settembre 1990) che ha elaborato la teoria dell’attaccamento, analizzando i legami all’interno della famiglia e soprattutto quelli madre-bambino. Scrive Bowlby: «La caratteristica più importante dell’essere genitori è fornire una base sicura da cui un bambino o un adolescente possa partire per affacciarsi nel mondo esterno e a cui possa ritornare sapendo per certo che sarà il benvenuto, nutrito sul piano fisico ed emotivo, confortato se triste, rassicurato se spaventato». Ricordiamoci a tal proposito l’insegnamento della volpe al Piccolo Principe: «È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante». È solo impegnandoci in una relazione che potremo dire di tenere a qualcuno, considerandolo a quel punto insostituibile. L’attaccamento sicuro dà al bambino le radici, ma allo stesso tempo è anche – e non è un paradosso – lo strumento con cui il bambino può iniziare a costruire la sua indipendenza.

Sui motivi per restare mi piace pensarla come lo psicoterapeuta Alberto Pellai che nel suo favoloso libro Io gomitolo tu filo (ed. DeAgostini 2021) spiega: «Un bambino dotato di attaccamento sicuro ama profondamente l’adulto da cui viene amato, ma sa anche separarsene al bisogno, quando quel bambino e quell’adulto devono abitare spazi ed esperienze in cui non potendo stare vicini, continueranno a sentirsi connessi attraverso gli invisibili fili del cuore». Restare, dunque, per i figli con la valigia non vuol dire restare fisicamente ma restare legati: «Il genitore ha la responsabilità di fornire un amore così totale al proprio bambino rendendolo capace di trasformare tale affetto in risorsa interiore con cui affrontare la vita, anche quando quella fonte di protezione e sicurezza non è fisicamente accanto a lui – sottolinea sempre Pellai –. Amare e accompagnare un figlio nella vita significa proprio questo: insegnargli a staccarsi da noi, avendogli fornito la certezza che noi rappresenteremo per sempre la base sicura, il porto verso cui potrà direzionare la sua navigazione quando le onde diventeranno spaventevoli o il mare della vita diventerà tempesta. Questa certezza rappresenta per lui la fonte della sua sicurezza emotiva e gli permetterà di diventare un esploratore del mondo che lo circonda, un appassionato protagonista di relazioni, un soggetto desideroso di andare incontro al nuovo, al bello e all’ignoto che riempie ogni giorno del suo presente e del suo futuro».

Ci può essere dunque un filo invisibile che ci tiene vicini ai figli con la valigia, ci ripetiamo a Il caffè delle mamme, anche quando ne siamo fisicamente lontani. È il filo del cuore. È questo pensiero, ci diciamo, che deve aiutarci a superare il distacco. Noi mamme, noi genitori che siamo stati prima fili e ora siamo gomitoli non dobbiamo dimenticarlo: «Dopo averli cullati, abbracciati e coccolati, noi genitori aiutiamo i nostri figli a vivere le loro prove di volo. Amare significa imparare a lasciar andare, avendo prima però costruito una stanza nel cuore in cui l’amore di un genitore per il proprio figlio (e viceversa) troverà sempre il proprio luogo elettivo».