La psicanalisi non è soltanto uno strumento terapeutico ma, da sempre, anche una disciplina che studia e cerca di interpretare i fenomeni sociali. In questo senso il convegno che si terrà al LAC di Lugano il prossimo 15 ottobre, promosso dall’Accademia di Psicoterapia Psicanalitica della Svizzera italiana, si propone di indagare un ambito della nostra vita quotidiana che suscita in tutti noi domande e anche preoccupazioni. L’irruzione delle tecnologie informatiche nei nostri modelli comunicativi e comportamentali sta producendo infatti una nuova realtà che ci assorbe, condiziona, ma con la quale dobbiamo misurarci e imparare a interagire. A Lugano prenderanno la parola quindi tre psicanalisti che hanno messo sotto osservazione questo nuovo mondo digitale e che, alla luce della loro esperienza clinica, ne proporranno alcune chiavi di lettura in termini psicologici. Abbiamo chiesto a una delle relatrici della giornata, Natacha Vellut, psicologa, psicanalista, ricercatrice al Centre de Recherche Médecine, Sciences, Santé, Santé Mentale, Société dell’UniversitàParis Descartes, di aiutarci a delineare il quadro in cui la psicanalisi può affrontare la riflessione sulla «società virtuale». La sua esperienza clinica, in particolare, l’ha portata a studiare il caso dei giovani adolescenti giapponesi che vivono in simbiosi con la rete, gli ormai famosi Hikikomori (vedi anche «Azione 39» del 26 settembre scorso).
Signora Vellut, secondo lei che cosa direbbe Freud se avesse potuto conoscere questa cosa tremenda che è Internet?
Beh, non vorrei parlare al suo posto e poi non sono nemmeno convinta che sia così tremenda... Internet ci mette a contatto con una realtà legata al sapere, alla conoscenza, molto interessante, se vista dal punto di vista psicanalitico. Internet permette di acquisire un sapere senza bisogno di passare per un «mediatore altro», senza avere un maestro, senza la nozione di autorità. Là dentro c’è un sapere che è disponibile e noi non siamo obbligati ad essere in una relazione di dipendenza con altri per raggiungerlo. Ecco, questo penso che avrebbe messo Freud un po’ in difficoltà...
Internet tocca realmente diversi aspetti della nostra vita e della nostra psicologia profonda?
Sì, tant’è che molti studiosi parlano di una sorta di rivoluzione antropologica, anche rispetto al modo di vedere il futuro che ha diffuso. Secondo me è molto importante dire che Internet modifica la nostra relazione con lo spazio, con la temporalità e nella relazione con gli altri. Questi sono aspetti che hanno certamente un rapporto con la visione psicanalitica.
L’uso della rete però non è necessariamente negativo: non tutti ci si perdono. Internet può essere magari anche terapeutico?
L’uso di Internet può essere di vario tipo: può essere funzionale, servire a passare il tempo. Ma può essere anche utilitario: può servire a un apprendimento; oppure può essere anche politico. C’è tutto un filone di siti di questo tipo, che usano Internet come luogo di espressione libertaria. Occorre dire poi che ci sono anche spazi dove si può passare del tempo in una forma di terapia. Al di là della tecnica classica è possibile anche usare Internet come strumento di relazione, tra paziente e terapeuta. Come si userebbero dei disegni per un bambino, dei giochi con un adolescente: può essere proprio uno strumento di mediazione e di gioco, in questo senso, che permette di rendere più morbida la relazione terapeutica. Penso che per noi psicoterapeuti possa rivelarsi non tanto una rivoluzione nella tecnica terapeutica, ma proprio uno strumento.
Le novità tecnologiche suscitano sempre preoccupazione: ricorda i Tamagotchi? Molti psicologi si erano allarmati per quella moda che simulava una vita virtuale. Poi tutto è caduto nel dimenticatoio...
Ecco: una cosa di cui parlerò sicuramente durante l’incontro sarà la questione del mondo virtuale. Una parola estremamente alla moda, estremamente utilizzata, ma è problematica, secondo me. Accettarla implica di dividere il mondo in due settori, quello reale e quello virtuale, due mondi diversi. Se cominciamo così siamo fuori strada. Prendiamo per esempio un romanzo: cosa è reale e cosa è virtuale lì dentro? Questa abitudine a creare due mondi separati non ha senso: quando si è su Internet si è a contatto con la realtà. Evidentemente non si tratta di un rapporto personale con qualcuno, ma non per questo non è un rapporto reale. Senza considerare poi che definire cosa sia la realtà è una questione tutt’altro che facile, visto che ognuno di noi vive in un suo mondo, a contatto magari con i proprio fantasmi.
L’impressione che si ha della rete è che stimoli una discreta dipendenza e ciò preoccupa. Ma che cosa cerchiamo in Internet?
Gli studi che ho condotto sul tema degli Hikikomori hanno demistificato molte preoccupazioni. Ero affiancata da specialisti che osservavano altri ambiti del rapporto con Internet e si occupavano in particolare dell’uso di Facebook. Abbiamo scoperto che il social network non è un sostituto ma un potenziamento delle relazioni. Gli Hikikomori, che si isolano dai loro pari, dalle persone della loro età, vivono su Internet, ma evitano le reti sociali. Perché per loro è troppo complicato relazionare.
Ma chi sono esattamente gli Hikikomori?
Sono ragazzi che interrompono tutte le relazioni sociali, più o meno alla stessa età. Smettono di frequentare la scuola, hanno relazioni d’amicizia solo legate ad attività sportive. Mantengono minimi contatti in famiglia e si muovono soltanto dove c’è Internet. Per loro diventano dunque problematiche tutte le questioni legate alla ricerca di un lavoro, di un inserimento sociale.
Un tempo gli psicanalisti chiedevano informazioni sui sogni dei loro pazienti, oggi chiedono loro che siti visitano?
Certo che sì. Io ho imparato moltissime cose da una Hikikomori che ho seguito. Quando mi parlava, lei metteva in gioco veramente molto poco di sé, ma molto del suo sito preferito di fantascienza, dei suoi personaggi, del perché non voleva che un personaggio morisse, perché un personaggio doveva innamorarsi di un altro personaggio... E con queste informazioni diceva in realtà tanto di sé. Era davvero bloccata nella sua capacità di esprimersi. La sua situazione durava già da dieci anni.Era una giovane donna molto timida, molto inibita, molto grave e però si sbloccava parlando di questo sito su cui aveva investito in modo massiccio.
Freud tendeva a ricercare nella mitologia classica i modelli di comportamento psicologico: i nuovi psicanalisti dovranno occuparsi meno di mitologia e più di fantascienza?
Ho letto di recente un articolo di studiosi greci: hanno osservato la situazione dei videogiochi in Francia e hanno osservato che si sta diffondendo un modello di eroe virtuale molto diverso dall’eroe romantico. Questo è curioso perché l’eroe romantico suscitava nei giovani in passato un’identificazione secondaria. L’eroe virtuale si comporta invece in un altro modo. È quasi in opposizione a quello: provoca un’identificazione molto più immediata, spontanea. Non è il cavaliere che incarna la grandezza, i valori della legge: l’eroe virtuale semplicemente distrugge tutti i nemici, senza altro scopo che la rivalità. Nelle sue imprese è difficile leggere un compito simbolico, un ruolo drammatico con cui si possa solidarizzare.