Non sempre si riesce a trasformare un buon giornalista in un capace dirigente d’azienda. «Leo» Manfrini ne era l’esempio: tanto bravo sul campo quanto in difficoltà come gestore. Se me ne ricordo scrivendo di Antonio Riva è perché l’amico scomparso in dicembre a 85 anni fu il protagonista di una mutazione riuscita. Nelle sue nuove funzioni (fino a direttore generale della Radiotelevisione svizzera dal 1988 al 1996) Riva non dimenticò mai di essere stato tra i protagonisti «di un’epoca televisiva all’insegna del nonconformismo competente ed entusiasta» – come scrisse a Willy Baggi («laRegione», 19 dicembre).
Direttore generale della Radiotelevisione svizzera, Antonio Riva si rifiutò nel 1981 di consegnare alla polizia gli spezzoni non trasmessi del filmato di una manifestazione davanti a Palazzo federale. Un esempio da proporre al Governo francese e al suo recente progetto di introdurre un divieto generale di fotografare o filmare la polizia in azione durante le manifestazioni di piazza. Con tutta la comprensione per il compito difficile dei tutori dell’ordine, vi sono elementi di uno stato di diritto che non possono essere compressi neppure in una situazione «delicata».
Oggi si ha tendenza a svalutare il Sessantotto ticinese, con le sue ingenuità e i suoi errori (piena luce non è stata fatta ancora sugli appoggi che l’eversione armata lombarda trovò anche nel nostro territorio). Il moto di fondo che lo caratterizzava, ossia la rivendicazione di rapporti nuovi tra i sessi, i partiti e le classi, interessò strati sociali non solo popolari ma anche «aristocratici»: i figli delle famiglie ricche del cantone, della cui fedeltà ai politici compartimenti stagni in cui si divideva il Paese nessuno avrebbe mai dubitato. Antonio Riva usciva da una di queste famiglie (oggi se ne espone la quadreria settecentesca alla Pinacoteca Züst di Rancate, vedi articolo a pg. 27). Era stato attivo nella ormai non più tanto «conservatrice» Lepontia Cantonale; frequentava il circolo di intellettuali cattolici che si esprimeva sul foglio (poi rivista) «Dialoghi»: un fondo di idee e di convinzioni che portò con sé quando, nel 1966, si impiegò alla giovane TSI e subito dovette difendere la posizione sostenuta nei documentari di Leandro Manfrini sulla guerra in Vietnam e l’intervento americano. Non si trattava di una posizione preconcetta o sentimentale, rifletteva – ispirato da Willy Baggi – un dato culturale: la conoscenza dei rapporti storici tra il piccolo Vietnam e l’immensa Cina e l’inquietudine dei migliori cervelli del giornalismo d’allora: i famosi articoli di Harrison Salisbury da Hanoi, pubblicati dal «New York Times» nel 1967, che il Rapporto McNamara nel 1971 avrebbe confermato.
A questi sentimenti di fondo, Antonio Riva associò sempre una prudente valutazione delle forze in presenza nel piccolo mondo della RTSI, rappresentate all’interno della CORSI. Posso immaginare (non ho le prove…) che i molti mesi trascorsi tra la mia offerta di ingresso alla TSI e l’atto della nomina, nel 1981, fossero l’indice di resistenze che Antonio, mio futuro superiore diretto, dovette superare in nome della professionalità. Non sarà perciò mai abbastanza lodata la scissione tra struttura istituzionale (la CORSI) e il programma (RSI, TSI), sancita per iniziativa della Direzione generale molti anni dopo. Posso aggiungere una cosa? È di questo livello di professionalità che continua ad avere bisogno la RSI: se ne tenga conto anche nella discussione sulla sorte del Parlato di Rete Due.