Prepararsi alla vita in libertà

Carceri – Una giornata trascorsa alla Farera e alla Stampa, con i detenuti che si dedicano ad attività di lavoro e formazione
/ 15.05.2017
di Sara Rossi Guidicelli

Ho sentito dire che il carcere è la peggior cosa che ti possa capitare, che è troppo duro, che lì succede di tutto. Altri invece dicono che è troppo molle, che sembra un cinque stelle, che stai meglio lì che fuori. La verità sta nel mezzo, come quasi sempre? Forse sta semplicemente da un’altra parte.

Mi permettono di trascorrervi una giornata, a vedere come si passa il tempo, qui, dalla mattina alla sera. Mi accompagna dappertutto Valentino Luccini, uno dei capi sorveglianti in forza alla struttura; è anche collaboratore alla formazione del personale, all’equipaggiamento delle guardie e responsabile antincendio.

Scopro prima di tutto che entrare in un centro di detenzione significa entrare in una società, composta da persone; una società diversa da quella in cui vivo, ma che cerca di assomigliarle. Perché? Per un motivo che sta alla base di questa struttura: Luccini mi spiega che c’è un articolo di legge che per tutti quelli che lavorano nel suo ambito è più importante di qualunque altra cosa, l’articolo 75 del codice penale, che dice che il «compito del carcere è di preparare il detenuto alla vita in libertà». Anzi: che bisogna preparare insieme a lui la sua futura vita in libertà. Per i carcerati c’è l’obbligo di lavorare. Si riceve uno stipendio di 33 franchi al giorno, che viene suddiviso in quattro parti: una per contribuire al proprio sostentamento; una che viene bloccata per il momento della liberazione; un’altra per le spese come cassa malati, risarcimento alle vittime, spese processuali; un’ultima infine per gli sfizi: sigarette e prodotti che si possono acquistare nel piccolo spaccio del carcere. Se qualcuno desidera avere la televisione o il computer in camera, deve pagarseli, con una quota giornaliera.

«Siamo quasi un’autarchia», mi dice il direttore, Stefano Laffranchini. «C’è chi pulisce gli spazi comuni, chi aiuta in cucina, chi lava e chi stira; c’è la squadra che si occupa della manutenzione interna e gli orti coltivati dai detenuti collocati in sezione aperta».

E poi ci sono i laboratori: lavori di cartonaggio, legatoria, stamperia, falegnameria, lavanderia, che si eseguono per enti esterni, pubblici o privati. C’è chi lavora il vetro e chi lavora per ditte che producono giocattoli, mettendo insieme tutti i pezzi dei giochi nella scatola.

Infine, importantissima conquista, fiore all’occhiello delle carceri ticinesi, ammirate per questo da tutti i colleghi degli altri cantoni svizzeri: la formazione. È Mauro Broggini l’ideatore e il coordinatore di questa scuola chiamata In-oltre, che è in pratica una sottosede della Spai di Locarno, ed è giunta al suo decimo anno di esistenza.

La prima visita che faccio è a un gruppo di donne che sta imparando alcune basi dell’informatica. L’aula è allegra seppur semplice: alle pareti bellissimi disegni del corso di pittura, un sole che ride, uno che piange, composizioni floreali, poster di mostre d’arte, mappe dell’Europa. Alla lavagna, una frase di Albert Einstein: Presta le tue orecchie a tutti, la tua voce a pochi. «Il nostro insegnante Massimo è bravissimo!», mi dicono le ragazze. «Ti prego, parla bene di Elia, il maestro di disegno: è giovane, studia ancora, ma insegna qui da noi due volte alla settimana come volontario», esclama subito una di loro e un’altra aggiunge: «Io voglio dire bene di Tamara: viene il martedì e il venerdì, ci fa cucina. Possiamo cucinare le nostre cose e mangiare insieme. Siamo qui come salami, mi spiace dirlo, però non c’è posto per noi, stiamo sempre in cella da sole e non vediamo l’ora che arrivi martedì e venerdì per non mangiare da sole».

Le donne infatti sono in condizioni diverse rispetto agli uomini: stanno alla Farera, che è il carcere preventivo, in attesa della sentenza, dove si sta in cella 23 ore su 24 con un’ora d’aria. Una volta arrivata la sentenza, gli uomini vanno a scontare la pena alla Stampa, l’edificio a fianco, dove si muovono più liberamente, lavorano durante il giorno, hanno la possibilità di mangiare in un locale comune al piano della sezione, costruiscono il loro programma di «preparazione alla vita libera». Per le donne però non esiste più un carcere in Ticino, quindi vanno spostate nel canton Berna o nel canton Vaud, tranne che per pene brevi. Stanno più a lungo quindi alla Farera, seppur con un regime che consente loro di trascorre dalle 6 alle 7 ore fuori cella, e per loro le mattinate con gli insegnanti di In-oltre sono la luce nel tunnel di quel difficile periodo di vita. 

Mauro Broggini ha gli occhi intensi blu che scintillano mentre parla di come ha realizzato il suo sogno di aprire una scuola in carcere. Non ci sono mai stati problemi per la quindicina di insegnanti della Spai che vengono qui a completare il loro orario di lavoro. «Insegniamo le materie base, italiano, francese, inglese, informatica, cucina, creazione di azienda, cultura generale, pittura, e i detenuti possono scegliere al massimo tre mezze giornate a settimana di corso. In quei momenti ricevono solo la metà dello “stipendio” ma non per questo rinunciano in molti. L’anno prossimo vorrei introdurre il tedesco, perché alcuni me lo hanno chiesto». Ha portato oggi per la seconda volta un parrucchiere e vado a vedere il corso di coiffure: tre ragazzi stanno imparando e tre signori fanno da «cavie».

Per Luca, capoarte che dirige il laboratorio di cartonaggio, è più difficile. Non tutti quelli che lavorano da lui sono così disciplinati e entusiasti. «Sai, mi sono già sentito dire più di una volta “Se volevo lavorare, non ero qui”. Non è facile». Bisogna creare rapporti di empatia senza né ferire né essere feriti. Me lo spiega Valentino, che forma chi entra in carcere per avere a che fare con i detenuti, che siano agenti di custodia, capiarte, assistenti sociali o insegnanti. «Io sono stato tradito da alcuni di loro, a volte. Ci vuole equilibrio e tanta esperienza. Non diventiamo amici, ma cerchiamo di avere buoni rapporti, di rispetto e empatia, che è la parola principale».

Mentre mi parla, usciamo all’aria aperta. Confesso al mio accompagnatore che mi immaginavo tutt’altro ambiente, in carcere. Vedere la realtà significa spesso estirpare preconcetti basati su film, fantasie o stereotipi. Quello che osservo alla Stampa è una società di persone che, mi rendo conto, non potrò capire in un giorno solo. Siamo ora nel cortile interno, vuoto, perché i detenuti sono tutti al lavoro o ai corsi, con il prato utilizzato anche per giocare a calcio, un rododendro rosso, il portico tutt’intorno e le quattro braccia dei dormitori. Su ogni piano vive un’unità di 15-16 persone, con un bagno, una cucina, un ufficio di sorveglianza. Ora la squadra di manutenzione interna sta eseguendo i lavori di restauro di una delle sezioni. Li segue e li dirige un agente di custodia con competenze in ambito edile.

L’ultima visita del pomeriggio è nel laboratorio di lavanderia e stireria. Chiedo al capoarte se ama il suo lavoro: «Sono trent’anni che lo faccio», mi risponde convinto. Lì ho la possibilità di conoscere e di intrattenermi con un gentiluomo colto e distinto, che prova a raccontarmi la sua esperienza dal suo arrivo alla Stampa a oggi. «Quando mi hanno arrestato, lei non ci crederà, ma sono stato sollevato. Ho capito che la mia vita precedente non sarebbe mai più tornata e ho sperato di avere un palazzo interiore sufficientemente ricco per abitarvi confortevolmente negli anni a venire». Niente più corse, niente più telefono, niente internet, ma tempo per riflettere, per studiare filosofia e storia dell’arte. Lui che un tempo frequentava i sarti per farsi confezionare vestiti su misura, ora rammenda i calzini degli altri. È un mestiere che si è inventato lui, e lo svolge a titolo puramente gratuito. «Non lo avrei mai fatto prima. Aiutare qualcuno così. Siamo una grande famiglia qui e mentre lavoro in lavanderia vedo i buchi, i capi da rammendare o da sistemare. Ho cercato di imparare da solo e dopo il lavoro mi occupo di cucire quello che c’è da cucire». È un artista e così, con arte, cerca di dare una seconda vita ai vestiti troppo usati.

Qui, ritagliarsi uno spazio individuale è come una religione, mi spiega. «La ricerca di ciò che ti distingue dagli altri equivale a trovare la libertà». Certo, aggiunge, né lui né chi lo ascolta deve farsi illusioni: stiamo parlando di un carcere svizzero, non certo simile a certe prigioni in altri luoghi del mondo. Qui la vita non si spegne, anzi, può continuare ed evolversi, come nel suo caso. «Scrivo e traduco per gli altri. Dipingo per me stesso. Mi hanno legato le mani e le mie mani hanno cominciato a riposare e ora si muovono con più cuore, più cervello e più esperienza di prima. L’altro giorno ho letto Pinocchio a un ragazzo africano... Questa è una delle cose che rimarranno nel mio palazzo interiore, tra le più preziose».

Finisce il pomeriggio, devo uscire. Saluto Valentino, saluto le mura, mi vengono parole che non so dire. Ho sbirciato un mondo di dolore e speranza, come tutti i mondi, e ora mi gira in testa solo una frase di Albert Camus: «Il carcere gli insegnò che la vera arte non può essere superiore alla vita».

Torno a casa e scrivo, come promesso mando da rileggere. Il signore colto in detenzione mi dice solo: «Quelle parole attribuite ad Albert Einstein sono in realtà una parafrasi di Shakespeare». Controllo, è vero. È Polonio, il chiacchierone che verrà ucciso da Amleto, a consigliare a suo figlio Laerte di prestare orecchio a tutti, ma la voce a pochi.