Prendersi cura dei curanti

Come calibrare l’equilibrio psicofisico dei professionisti sanitari?
/ 02.10.2017
di Maria Grazia Buletti

«Essere quotidianamente confrontati con la malattia e la sofferenza, ma anche con le aspettative di guarigione, significa condividere intense esperienze emotive che risuonano sul piano personale. Dopo il proprio turno di lavoro ogni curante porta a casa ricordi, sensazioni e immagini suscitati dall’incontro con i pazienti e con i famigliari»: è la sintesi del tema del terzo Convegno della Fondazione Sasso Corbaro (www.sasso-corbaro.ch) che avrà luogo il prossimo 19 ottobre a Bellinzona, nella Sala del consiglio comunale. Patrocinata dalla Comec (Commissione di etica clinica dell’Ente Ospedaliero Cantonale) e sostenuta dall’Accademia svizzera delle scienze mediche, la giornata di conferenze presenterà modelli e pratiche cliniche sul tema della cura dei curanti ed è aperta ai professionisti della salute e della cura come pure al grande pubblico (iscrizione obbligatoria entro il 4 ottobre a fondazione@sasso-corbaro.ch). Le relazioni saranno pubblicate sulla «Rivista per le Medical Humanities» dell’Ente Ospedaliero Cantonale (www.rivista-rmh.ch). Il tema dell’equilibrio psicofisico di chi è attivo nelle professioni di cura si è evoluto e oggi più che mai assume l’importanza che merita. 

«Ormai si è perfettamente consci che, malgrado gli straordinari sviluppi della tecnologia, il mestiere del curante non può prescindere dalla relazione interpersonale che si crea fra i curanti stessi e il paziente con i suoi famigliari», racconta lo psicologo ATP/FSP, collaboratore scientifico e coordinatore del convegno Nicola Grignoli, evidenziando lo stretto rapporto fra chi richiede e chi offre aiuto: «Saper mantenere un rapporto dinamico ed equilibrato di empatia e compassione è un’attitudine che va riconosciuta e costantemente alimentata». Pensando alle professioni sanitarie, sono parecchie le situazioni critiche in cui i sanitari si trovano a operare: dal lavoro al Pronto soccorso, alle malattie incurabili che richiedono cure palliative, alle situazioni di morti perinatali e quant’altro. Non è difficile comprendere le difficoltà che i curanti si trovano a dover gestire, spesso in una sorta di identificazione nelle situazioni e nei pazienti. «Quando, ad esempio, si proietta la situazione o ci si identifica con un paziente dalla prognosi molto infausta, ecco che si vive la paura della morte quasi come la sta vivendo lui. Bisogna allora che il curante sappia rendersi conto che l’ammalato non è lui, ma chi sta assistendo», esordisce il dottor Roberto Malacrida, professore e segretario generale della Fondazione Sasso Corbaro. 

Malacrida evidenzia la necessità di mantenere una sorta di equidistanza che però, ricorda, sarà variabile lungo il tempo di cura e secondo le necessità del momento. «Vi sono ambiti al di fuori delle situazioni d’urgenza, pensiamo alla geriatria, la nefrologia o le malattie neurodegenerative, nei quali il curante sviluppa nel tempo una relazione di fiducia con l’ammalato e fatica maggiormente a distinguersi da lui», gli fa eco Grignoli. Gli esempi portati dai nostri interlocutori permettono facilmente di desumere l’importanza dell’equilibrio psicofisico dei curanti per rapporto a se stessi e alla qualità del proprio operato, come riassume Grignoli: «Un paziente necessita comprensione da un curante che non si confonda con lui, ma che sappia invece contenere le sue paure e perciò si riveli essere un buon punto di riferimento». È chiara l’importanza del prendersi cura dei curanti e il dottor Malacrida ne riassume le ragioni: «Per prima cosa ci consente di preservare il curante dall’ammalarsi a sua volta; sarebbe paradossale tollerare che un ambiente di cura faccia ammalare chi vi lavora». 

Secondo punto importante: «Se curiamo bene il curante, egli curerà a sua volta meglio il paziente e, per la mia lunga esperienza di medico, so che ne beneficeranno anche i famigliari del paziente stesso che, entrando nel contesto terapeutico, potranno aiutare meglio il loro caro nel suo percorso». Concetto che la giornalista e scrittrice Susanna Moreira Marquez esprime citando a sua volta uno scrittore brasiliano: «Le persone care sono i mangiatori di dolore del paziente». 

Quindi, riassume Malacrida: «Gli scopi del prendersi cura dei curanti si riassumono nel fatto che chi cura e sta bene, di per se stesso, favorirà una cura migliore del paziente per mezzo della propria condizione e dello star bene dei famigliari». «La cura del curante è indispensabile per evitare che la distanza emotiva si trasformi in un pericoloso cinismo», afferma lo psicologo che giustifica le necessità di prevenzione di un eventuale burn out lavorativo. «Quando qualcuno porta in ospedale o nel luogo di cura una propria serenità personale, famigliare o d’altro genere, saprà curare bene più facilmente, altrimenti la sua giornata di lavoro resterà condizionata dal suo eventuale problema di fondo», conferma Malacrida, identificando l’equilibrio del curante in quella che un tempo veniva chiamata la «giusta distanza». 

Spazio che oggi deve essere vissuto in modo dinamico, «in un equilibrio di momenti in cui è importante che il curante si avvicini parecchio al proprio ammalato, ma poi deve anche essere in grado di distanziarsi per poter restare persona di riferimento». Ciò vale a maggior ragione quando parliamo di persone che non guariscono, ma che vanno curate nel loro percorso di malattia cronica o terminale e dove la paura della morte fa capolino. «La morte fa parte della vita, come si dice, ma è anche vero che ho incontrato centinaia di persone che non volevano morire e che in modo legittimo chiedevano una sorta di onnipotenza alla medicina per tenerli in vita con i loro cari»: Malacrida entra così in un tema ancora a tratti tabù, aggiungendone un tassello: «Oggi i curanti devono barcamenarsi anche nel campo dell’etica della complessità, visto che vi sono anche persone che desiderano morire, ma non possono».

Interessante il concetto di autonomia nella relazione fra curante e paziente e, anche in questo caso, di responsabilità equilibrata che dovrebbe permearla. Ciò porta Grignoli a puntualizzare: «Il curante deve trovare la propria strada senza cadere in un “moral distress” (ndr: letteralmente disagio morale) e per questo è fondamentale che la decisione di cura sia collegiale e possa integrare eventuali divergenze di opinioni personali rispetto al team». Formazione continua interna all’EOC, relazione della formazione con la cultura, la consapevolezza della tecnica medica che non deve diventare un fine ma restare un mezzo per la medicina e la Commissione etica a disposizione dei curanti sono alcuni fra i mezzi a disposizione di medici e personale sanitario. Essi pongono l’accento sulle risorse e non sulle difficoltà dei curanti.