«Da Milano a Gallarate, il viaggiatore non tarderà di incontrare un di que’ cavi che noi diciamo fontanili ove sorgono polle d’acqua, la quale per un declivio quasi insensibile tanto si fa percorrere, che trovasi a livello dei prati, che va ad irrigare. Farà questa osservazione il Viaggiatore agronomo che, mirando i prati irrigatori, ne vedrà alcuni disposti in quel modo che noi diciamo di marcita, e se viaggerà anche nel fitto inverno vedrà con meraviglia verdeggiarvi l’erba lussureggiante. Un’irrigazione incessante copre sempre il prato tutto ben livellato di un sottil velo d’acqua corrente» (Amoretti, 1806).
Marcita, o prato marcitoio, deriva dal Latino, con il significato anche di scorrimento lento, qual è quello che ha l’acqua delle marcite. Si tratta di un prato artificiale composto da più specie di erbe, che costituiscono un pregiato foraggio per il bestiame bovino allevato. Prato tipico della pianura lombarda, principalmente a Nord di Milano, secondariamente tra il fiume Ticino e l’Adda, e alimentato durante la stagione invernale con l’acqua tiepida che sgorga dalle risorgive, dette fontanili (foto).
Al piede dei terreni morenici, ultime vestigia verso Sud delle colate del ghiacciaio dell’Adda e del Ticino, sono depositate coltri di terreni permeabili e filtranti, che incontrano in profondità i sottostanti terreni argillo-limosi, impermeabili. Al contatto dei due tipi di sedimenti avviene l’affioramento in superficie dell’acqua sotterranea (falda freatica), creando le risorgive (fontanili). La caratteristica peculiare della marcita consiste nell’utilizzo dell’irrigazione artificiale, ottenuta dalle risorgive grazie a ingegnose canalizzazioni, risultato di una pluri-secolare esperienza, che permette di ottenere fino a 4-5 tagli di fieno, quando la campagna circostante è stretta nella morsa del gelo padano e tutto intorno biancheggia di brina, oppure è coperta di neve. E un’esitante nebbiolina aleggia su un mare di erba di un verde quasi sfacciato, considerando quanto e come lo circonda. Viene a crearsi così in pieno inverno un paesaggio insolito e verdeggiante. «L’impiego dell’acqua nell’Italia settentrionale, specie in Lombardia, è nello stesso tempo un’arte e una scienza» (Heuzé, in Giacomini 1958).
Le marcite sono governate in modo che vi scorra lentamente e in permanenza durante cinque mesi, dall’autunno alla primavera, un sottile velo d’acqua, come fece osservare l’Abate Amoretti oltre duecento anni or sono. Le acque dei fontanili che le alimentano sono popolate da una lussureggiante flora acquatica e da un’altrettanto significativa fauna di gamberi e di insetti. Queste acque, indicatrici di un ricco contenuto di ossigeno, non inquinate e scorrenti in permanenza, hanno una temperatura abbastanza costante: intorno ai 6°C / 8°C, essendo alimentate da profonde falde freatiche.
L’esistenza delle marcite (o prati marcitoi) ha origini lontane nel tempo. Da quanto ci è stato tramandato attraverso documenti di archivio, pare siano stati i monaci benedettini cistercensi, provenienti dalla Francia verso il 1400 (e la cui regola monastica era «pregare e lavorare, ora et labora») ad avere per primi concepito e organizzato, con perspicace capacità di attenzione e di attuazione, le tecniche di irrigazione giunte fino ai nostri giorni, sottraendo in tal modo i terreni al bosco e alle paludi originariamente esistenti. Questa ingegnosa tecnica idraulico-agronomica formava così i presupposti per un proficuo allevamento di bestiame bovino, motivando lo sviluppo di una fiorente industria casearia originata grazie all’ottimo foraggio ottenuto nelle marcite.
L’arrivo dei monaci benedettini nell’Italia settentrionale verso il 1400 coincise con l’inizio in Europa del climaticamente nefasto periodo della «piccola era glaciale» (1400-1860 circa), all’origine di profondi sconvolgimenti sociali e politico-economici: guerre, pestilenze e carestie. Nel relativamente breve periodo di un secolo, tra il 1784 e il 1883, si ebbero tre catastrofiche eruzioni vulcaniche in Islanda (Laki, 1784), e in Indonesia (Tambora, 1826 e Krakatoa, 1883). Queste causarono parecchie decine di migliaia di vittime, a seguito anche della formazione di giganteschi «tsunami». Durante parecchi mesi, il cielo fu oscurato dalle ceneri vulcaniche che giunsero fino in Europa. A seguito di questi eventi, la radiazione solare sulla Terra fu schermata in larga misura, con una conseguente diminuzione della temperatura al suolo. Si ebbero anni senza estati, chiamate «inverni vulcanici». I raccolti furono ovunque disastrosi, originando carestie su larga scala, perdite di raccolti e conseguenti disordini sociali, male gestiti da autorità impreparate.
Anche i pascoli alpini ebbero a soffrirne, fin oltre la metà dell’Ottocento, poiché a estati durante le quali era impossibile utilizzarli per il rigore delle temperature e il conseguente tardivo sviluppo dell’erba, si alternavano estati siccitose: «1870. In memoria dei più vecchi, una simile sterilità e siccità non si ricordano. Il fieno è nullo e sopra quel poco è quasi tutto coperto di sajotri (nda: cavallette) e bruchi» (Fransioli 1992, dall’Archivio Patriziale di Airolo).
Il fatto è che le vicende e la memoria umane non sono calibrate sui tempi e i ritmi della Natura, e si ha la deleteria tendenza a dimenticare.