Plastiche in alto mare

Come si degradano le sostanze inquinanti, in particolare le plastiche non biodegradabili, dannose per gli animali e al tempo stesso insostituibili in biomedicina, elettronica, industria alimentare? – Seconda puntata
/ 25.06.2018
di Sabrina Belloni

Nel precedente articolo (v. «Azione 22» del 28 maggio) abbiamo illustrato come le plastiche siano oggi tipicamente composte da polimeri derivati dagli idrocarburi, sintetizzati artificialmente con additivi, e non sono disponibili in natura nella loro composizione finale, pertanto non sono biodegradabili, e di conseguenza determinano danni all’ambiente di proporzioni non valutabili.

Nel Mediterraneo, secondo i dati diffusi da una ricerca condotta dall’Istituto di Scienze Marine del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Genova (ISMAR) e dall’Università Politecnica delle Marche (UNIVPM), la quasi totalità dei rifiuti galleggianti sarebbe composto da materie plastiche, considerando che altre tipologie di rifiuti affondano velocemente e pertanto non sono stati monitorati. Ma anche le plastiche, dopo un enorme periodo in superficie, degradano e migrano verso i fondali; alcuni frammenti sono stati ritrovati anche a oltre tremila metri di profondità.

La maggior parte dei componenti plastici riversati in mare sono prevalentemente i rifiuti della nostra vita quotidiana che si trasformano in micro-plastiche e sono praticamente invisibili a occhio nudo, anche quando galleggiano sulla superficie. Si tratta di microframmenti, inferiori ai 5 mm, che spesso compongono cosmetici e i prodotti per l’igiene personale (dentifrici, creme esfolianti, ecc.), residui della degradazione di bottiglie, buste, imballaggi, oppure microfibre che si staccano dai tessuti sintetici quando vengono lavati o dalle reti da pesca, incluse le migliaia abbandonate sui fondali. Le microplastiche sono in grado di passare attraverso gli impianti di trattamento delle acque reflue e di accumularsi sulle coste, fino a penetrare negli ecosistemi marini.

In generale, le plastiche presentano una densità inferiore a quella dell’acqua di mare, ed è per questo motivo che galleggiano in superficie. Solo in seguito alle interazioni con organismi, come la creazione di microfilm intorno ai singoli frammenti o l’insediamento di organismi bentonici sui rifiuti più grandi, questi materiali possono affondare.

E qual è l’impatto delle microplastiche sugli ecosistemi marini? Queste microscopiche particelle mantengono per moltissimi anni le loro caratteristiche originarie: la resistenza all’alterazione chimica e meccanica, agli urti, agli agenti atmosferici, e pertanto sono un inquinante che rappresenta un serio rischio non solo per la fauna e la flora marine, ma anche per la salute umana.

Esse infatti sono ormai tristemente un componente della catena alimentare ittica, dal plancton ai pesci più piccoli, risalendo sino ai pesci predatori di notevole interesse economico nella filiera dell’industria ittica. Però di plancton e piccolissimi animali si nutrono anche alcuni mammiferi marini, i misticeti (le balene con i fanoni), e i pesci filtratori (mobule e squali balena). Altri cetacei (gli odontoceti) e alcuni pesci predatori invece si nutrono erroneamente delle buste di plastica, scambiandole per meduse e cefalopodi che fanno parte della loro dieta naturale. 

Le reti di nylon (per la pesca) e di altro materiale plastico creano barriere invisibili in cui gli animali marini restano avviluppati e muoiono per soffocamento. Le plastiche galleggianti in cui restano impigliate le tartarughe non consentono loro di nuotare verso i fondali, cosicché esse muoiono per l’elevata temperatura che raggiungono, oltre che per fame. Alcune recenti ricerche stanno analizzando l’impatto che la pellicola di microplastiche che galleggia sulla superficie sta determinando sull’ossigenazione della colonna d’acqua, e pertanto sull’esistenza del fitoplancton, delle alghe, delle piante acquatiche e di tutti gli organismi marini che se ne cibano. Molte ricerche sono in avanzata fase di approfondimento, pertanto i risultati finora ottenuti non sono definitivi.

Ai nostri giorni si sta facendo comunque molto in tema di informazione e di limitazione dell’inquinamento. In Europa si registra una crescente consapevolezza riguardo alla necessità di intensificare gli sforzi per usare, riutilizzare e conservare le preziose materie plastiche. Verso la fine del 2015, la Commissione Europea ha adottato un nuovo e ambizioso pacchetto di economia circolare (Circular Economy Package – CEP), che dovrebbe «costituire l’anello mancante nel ciclo di vita dei prodotti attraverso un maggior ricorso al riciclaggio e al riutilizzo, a beneficio sia dell’ambiente che dell’economia». Si è constatato infatti che meno del 25 per cento dei rifiuti di plastica raccolti viene riciclato e circa il 50 per cento finisce negli impianti inceneritori, dove brucia insieme alla spazzatura, anziché essere avviato alle ditte specializzate nel riciclaggio di questi materiali, che potrebbero essere utilizzati come risorse. (Nel caso di Migros la strategia di recupero delle plastiche è spiegata alla pagina https://generation-m.migros.ch/it/vivere-in-modo-sostenibile/grafici/riciclaggio-plastica.html).

L’allarme legato alle microplastiche è aumentato notevolmente anche grazie agli studi che si stanno svolgendo a livello comunitario in seguito al recepimento della Marine Strategy Framework Directive (MSFD, 2011). Il progresso nella comprensione delle correlazioni esistenti tra i processi naturali e la struttura e proprietà dei polimeri ha inoltre determinato lo sviluppo di nuovi materiali con le proprietà e l’usabilità della plastica, ma biodegradabili.

Molti ricercatori di diversi paesi stanno brevettando nuove tecnologie, procedimenti, materiali e attrezzature di vario genere per trovare soluzioni ai danni ormai creati dall’inquinamento. E alcuni di questi brevetti sono ormai realtà, che generano interessi e business. Come ad esempio i polimeri green che degradano in 70 giorni scoperti dalla società bolognese Bio-On, i quali sono generati da alcuni batteri alimentati da scarti dell’industria agricola. Oppure le buste della spesa realizzati con il Mater-Bi, un materiale di origine vegetale che deve essere smaltito come compost insieme ai rifiuti umidi. Pertanto si decompone correttamente se sottoposto al corretto processo di smaltimento; mentre impiega oltre un anno a scomparire se invece viene abbandonato in mare o nell’ambiente.

O l’innovativo sistema per realizzare un policarbonato ecologico usando il limonene, l’idrocarburo aromatico responsabile del profumo che sprigionano gli agrumi, estratto dalle bucce, e che oggi viene venduto all’industria dei profumi. Alcuni ricercatori della Portsmouth University del Regno Unito e del National Renewable Energy Laboratory del dipartimento dell’Energia negli USA hanno creato un enzima che riesce a «mangiare» i rifiuti di plastica; i giapponesi hanno isolato un batterio in grado di disgregare il Pet; nel 2016 l’italiana Federica Bertoccini scoprì casualmente una tarma mangia plastica, la Galleria mellonella. Queste ricerche sono in fase molto avanzata e fanno ben sperare per il futuro. Oggi non sono praticabili poiché le scorie sono tossiche.

In tutto il mondo si stanno moltiplicando iniziative che coinvolgono scuole, comunità e mass media per ampliare la conoscenza delle popolazioni sulle possibilità attuali per limitare l’inquinamento e, con la buona volontà personale, anche per ridurlo e migliorare la salute del nostro pianeta (si veda la pagina: https://generation-m.migros.ch/it/vivere-in-modo-sostenibile/guida-al-riciclaggio-migros.html).

È essenziale migliorare il nostro comportamento e cambiare le abitudini, cominciando dalle cose più semplici che – se moltiplicate sul numero delle persone sensibili – diventano dei passi essenziali: utilizzare borse per la spesa riutilizzabili e bottiglie riciclabili; acquistare i refill del latte, dei detersivi e detergenti vari, oppure nelle buste salva spazio; utilizzare prevalentemente oggetti prodotti con materiale facilmente recuperabile. Nel prossimo articolo spiegheremo come si sono formate le isole di plastica (i gyres) negli oceani e perché.