Perché si fanno meno figli

Famiglia - Tra incertezza economica, divario di genere e cambiamenti climatici, diventare genitori fa sempre più paura
/ 02.05.2022
di Stefania Prandi

Precarietà lavorativa, incertezza economica, divario di genere, welfare inadeguati, cambiamenti climatici e sfiducia nel futuro. Sono le cause per cui, nei paesi industrializzati, diventare genitori fa sempre più paura. La conseguenza del timore di mettere al mondo un bambino o una bambina si riflette nel declino dei tassi di natalità, iniziato a metà del secolo scorso, con un’accelerazione negli ultimi anni. In Europa, la fertilità nel 2021 era di 1,6 figli per famiglia, inferiore al «tasso di sostituzione demografica», cioè il numero annuo di nascite necessario a compensare i decessi e a garantire la stabilità della popolazione. In alcuni paesi dell’Europa mediterranea si sono raggiunti i minimi storici. In Svizzera, la media è quasi in linea con quella europea, un dato che colloca la Confederazione elvetica davanti a Italia, Spagna e Grecia, ma dietro a Germania e a Francia.

I media internazionali, dalla «BBC» a «The Guardian», da «The Atlantic» a «The New York Times», ospitano testimonianze e dibattiti sulle ragioni del calo delle nascite. La motivazione principale di questa tendenza è l’aumento dell’incertezza, secondo Daniele Vignoli, professore di Demografia all’Università di Firenze. In un recente seminario all’Istituto universitario europeo ha spiegato che è sempre più difficile prevedere il proprio futuro. Uno studio del Center for Population Change dell’Università di Southampton, nel Regno Unito, ha mostrato che è svanita la possibilità, valida fino al 2012 circa, di riuscire a comprare una casa prima di avere dei figli.

Per Chiara Saraceno, sociologa della famiglia con una carriera da docente in università italiane e tedesche, sono due i principali motivi per cui si resta childfree. «È difficile e impegnativo entrare in un mercato del lavoro che non dà più grandi certezze sul lungo periodo. E non avere un orizzonte minimo di sicurezza, può far sembrare irresponsabile avviare un progetto come quello di crescere un figlio – spiega ad «Azione» – La seconda ragione riguarda le donne: oggi le coppie si aspettano che entrambi siano occupati, a causa dell’insicurezza economica e soprattutto della difficoltà di uscire da un rapporto se poi non funziona. Quindi anche le donne, e non solo gli uomini, vogliono una certa stabilità occupazionale prima di decidere di diventare madri. Ci si afferma economicamente con maggiore lentezza di una volta e quindi si inizia più tardi a pensare alla gravidanza. L’esito è che ci si trova ad affrontare, più frequentemente, qualche problema di fecondità».

Nei Paesi con un welfare attento alla maternità e alla paternità, la natalità cresce. Un esempio viene dalla Germania che ha cambiato le politiche familiari, migliorando un contesto in cui la fecondità era bassa. «Nel 2007 hanno fatto una riforma favorevole anche ai ceti medi – dice Saraceno – Un altro modello virtuoso viene dal Nord Europa. All’inizio degli anni Duemila erano in difficoltà ma, con una serie di politiche molto avanzate in termini sia di congedi sia spingendo sul coinvolgimento dei padri, perché i figli non riguardano soltanto le madri, anche in termini di cura, hanno cambiato la situazione».

Gli studi indicano che, nonostante viviamo in un’epoca con l’aspettativa di vita più alta che mai, la tecnologia all’avanguardia e un accesso diffuso all’assistenza sanitaria, le «brutte notizie» che irrompono in continuazione nella nostra quotidianità a causa dell’iper-connessione a Internet, rendono il clima particolarmente pessimista. Un sondaggio del 2019 di «Business Insider» ha mostrato che un terzo degli americani – quasi il quaranta per cento di chi ha tra i diciotto e i ventinove anni – pensa che le coppie dovrebbero considerare gli effetti negativi del cambiamento climatico quando decidono di mettere al mondo qualcuno. Nel 2020, il tasso di natalità negli Stati Uniti è diminuito per il sesto anno consecutivo, con un calo del quattro per cento. In una nota della scorsa estate agli investitori, gli analisti di Morgan Stanley hanno concluso che il movimento per non avere figli, spinto dai cambiamenti climatici, sta crescendo e ha un impatto sui tassi di fertilità più rapido di qualsiasi tendenza precedente. C’è chi, però, sostiene, come Kimberly Nicholas, scienziata del clima e coautrice di uno studio del 2017 sui cambiamenti dello stile di vita più efficaci per abbassare le emissioni, che la riduzione della popolazione non sia la risposta perché gli interventi decisivi devono essere fatti entro un decennio, al massimo.

Altri fattori che scoraggiano sono i modelli inarrivabili di genitorialità: l’idea di dovere essere perfetti e presenti in famiglia, nonostante i tempi di lavoro sempre più pervasivi, pressioni che, in particolare, riguardano le madri. Cynthia Wang, professoressa di Management e Organizzazioni alla Northwestern University, negli Stati Uniti, ha chiesto a centinaia di genitori lavoratori di rispondere a un sondaggio online per valutare la loro stabilità emotiva e la capacità di gestire le situazioni stressanti. È emerso un senso generalizzato di inadeguatezza, col timore che, da grandi, i figli si ricorderanno soprattutto di quanto sono stati trascurati. E per molti la pandemia ha esacerbato le sfide esistenti. «C’è una crescente iper-responsabilizzazione, come se tutto dipendesse dai genitori; da un lato si sentono in dovere di fare anche la parte di altre istituzioni e dall’altro credono di potere controllare ciò che succede là fuori, per cui qualsiasi insuccesso o cattivo comportamento sarebbe colpa loro – dice Saraceno. – Inoltre, viviamo in società in cui, più o meno fortemente, c’è una riproduzione intergenerazionale delle disuguaglianze. Questo fa pensare che magari sia meglio, se si ha già un bambino, non farne un altro perché altrimenti si toglierebbero vantaggi al primo. Le opportunità sembrano derivare, ormai, solo da quello che si è in grado di offrire, in termini affettivi e materiali, senza spazio per il caso».