L’endocrinologo americano, Robert Sapolsky è pure ricercatore in Kenya, al Museo nazionale (Wert Her Mx)

Perché agli altri primati non viene l’ulcera?

Endocrinologia - Robert Sapolsky dice che ci ammaliamo perché non siamo fatti per vivere in stato di continuo stress
/ 25.03.2019
di Lorenzo De Carli

«Siamo abbastanza protetti e privilegiati sul piano ecologico da essere stressati principalmente per questioni sociali e psicologiche»; così scrive Robert Sapolsky, neurobiologo e primatologo statunitense, che trascorre parte dell’anno all’Università di Stanford, dove si occupa di neuroendocrinologia, e un’altra parte dell’anno in Kenya come primatologo. 

Il legame tra i due ambiti di studio è dato dall’attenzione prestata all’attività della classe di ormoni denominata glicocorticoidi (in particolare il cortisolo) negli esseri umani e nei babbuini, e le sue osservazioni sul terreno hanno messo in evidenza come «l’ecosistema del Serengeti è così ideale per i babbuini della savana, che anche loro si concedono il lusso di farsi del male a vicenda con stressor sociali e psicologici».

Robert Sapolsky si è distinto per gli studi dedicati allo stress sfociati nel suo Perché alle zebre non viene l’ulcera?, ma il suo sguardo è costantemente puntato alla nostra storia evolutiva; come provano il Diario di un uomo scimmia e L’uomo bestiale. Non c’è comportamento o emozione umana, dei quali Sapolsky non esamina anche i loro corrispettivi negli altri primati, mettendo in luce l’animalità che è in noi.

La risposta alla domanda «perché alle zebre non viene l’ulcera?» è semplice: rispetto allo stress, il nostro organismo attiva le medesime risposte fisiologiche degli altri primati e di molti mammiferi, tuttavia il nostro stile di vita ci tiene continuamente esposti ad agenti di stress, spesso immaginari, non permettendoci di disattivare rapidamente la risposta ad essi.

«Vista dalla prospettiva dell’evoluzione del regno animale, – scrive Sapolsky – lo stress psicologico prolungato è un’invenzione recente, in buona parte limitata agli uomini e ad altri primati sociali». Secondo Sapolsky – che esamina un ampio ventaglio di effetti negativi dello stress, dal metabolismo al sesso, passando dal sistema cardiocircolatorio alla memoria e all’umore – la questione di fondo è che, troppo spesso, mettiamo in moto un sistema fisiologico che si è sviluppato per rispondere a esigenze fisiche acute ma che noi attiviamo per lunghi periodi con le nostre continue preoccupazioni. Così, la zebra si stressa solo per sfuggire all’occasionale rincorsa del leone, producendo una rapida secrezione di adrenalina e all’altrettanto rapido incremento dell’attività cardiocircolatoria, che si spengono non appena messasi in salvo. Mentre le nostre preoccupazioni per l’ipoteca, i rapporti sociali o le promozioni restano costantemente presenti, e con esse anche la risposta fisiologica alle loro sollecitazioni non diminuisce.

La storia dello studio dello stress è segnata dai lavori di ricerca condotti dall’endocrinologo Hans Selye, il quale teorizzò, nei suoi esperimenti su cavie, la sindrome generale di adattamento, coniando il termine «stress», che definì così: «una risposta non specifica dell’organismo a ogni richiesta effettuata su di esso».

La sindrome di adattamento generale è suddivisa in tre fasi: 1) la fase di allarme che si avvia, a partire dalla condizione di omeostasi, quando l’organismo viene sottoposto a degli agenti stressogeni (stressor); 2) la fase di resistenza, durante la quale l’organismo sviluppa una capacità di adattarsi agli stressor; 3) la fase di esaurimento, che subentra qualora lo stressor permanga e l’organismo non riesca a resistervi esaurendo la sua capacità di adattamento e avviandolo alla malattia e alla morte. Selye suddivise lo stress in due categorie.

L’«eustress» (o stress buono) è quella condizione di stimolo che avvia una risposta adattiva dell’organismo che gli permette di resistere alle sollecitazioni del suo ambiente. È associato a una condizione di attenzione, razionalità, equilibrio emotivo e si presenta nelle fasi di allarme e resistenza. 

Il «distress» (o stress cattivo) è quella condizione di stimolo che esaurisce le difese dell’organismo o a causa di una esagerata pressione stressogena o a causa di una elevata vulnerabilità dell’organismo che lo porta a una risposta sproporzionata rispetto a stimoli anche lievi. È associato a una condizione di ansia, eccitazione ed esaurimento o, all’opposto, in caso di mancanza di stimoli, è associato a una condizione di noia, apatia, confusione, e si presenta nella fase di esaurimento.

La formulazione del concetto di stress avviò studi sistematici sul rapporto tra organismo e ambiente, e il concetto di omeostasi venne sostituito, in campo medico da due nuovi termini: «allostasi» e «carico allostatico», con i quali si vuole mettere in evidenza il fatto che l’equilibrio omeostatico è qualcosa di dinamico, e che la capacità di trovare una nuova forma di equilibrio nel cambiamento è espressione di una buona resilienza.

Se lo stress può «accendere» o «spegnere» determinate funzioni è perché esso agisce sul nostro sistema nervoso, attivando il sistema simpatico e inibendo quello parasimpatico. Anche gli ormoni sono una risposta allo stress e Sapolsky ha studiato in particolare i glicocorticoidi, secreti quando il cervello avverte oppure – e questa è una caratteristica peculiarmente umana – anticipa uno stessor.

Uno dei primi argomenti presi in esame da Sapolsky è il rapporto tra stress e sistema cardiovascolare. La reazione tipica è quella dell’aumento della frequenza cardiaca e della pressione sanguigna, entrambe necessarie per consentirci di rispondere in maniera adeguata a uno stressor. Esaurito quest’ultimo, i vari ormoni della risposta allo stress si disattivano, il sistema nervoso parasimpatico inizia a calmare il cuore mediante il cosiddetto nervo vago e il corpo si tranquillizza. Siccome, però, non siamo zebre e siamo sollecitati sia da stressor psicologici, sia da stressor sociali, non è infrequente che sollecitazioni continue non permettano al nostro organismo di ritornare a una adeguata situazione di quiete, esponendo al rischio di cardiopatie, di ipertensione e di danneggiamento dei vasi sanguigni, i quali rispondono con una reazione infiammatoria che può diventare sistemica e irreversibile, dando luogo all’arteriosclerosi.

Particolarmente complesso è il rapporto tra stress e cibo. In risposta a uno stressor, per esempio l’arrivo di un leone, l’organismo della zebra mobilita selettivamente le riserve energetiche necessarie per mettere in moto i muscoli utili a sottrarsi al predatore. In quella fase, entrano in circolo ormoni che inibiscono l’appetito, e solo successivamente, altri ormoni, i glicocorticoidi, saranno rilasciati dal cervello per stimolare l’appetito e soddisfare in tal modo l’accumulo di nuova energia.

Rispetto alla zebra, che non viene continuamente predata dai leoni, la nostra vita sociale è caratterizzata da frequenti stressor intermittenti, cosicché, se è pur vero che gli ormoni inibitori dell’appetito vengono rilasciati più volte, la stessa cosa succede ai glicocorticoidi, i quali, però, restano in circolazione più a lungo, rinnovando in tal modo lo stimolo alla fame.

Ognuno di noi reagisce in maniera diversa a questa situazione, ma chi, sotto stress, tende a ingrassare, è perché lo stimolo della fame è ripetutamente rinnovato e prolungato.

Da primatologo, Sapolsky ha osservato che un importante predittore dello stress è il rango sociale. Tuttavia egli è ben lungi dal trasferire nell’ambito umano dinamiche sociali di altri primati perché una delle nostre caratteristiche distintive è quella di appartenere, contemporaneamente, a più reti sociali e ad avere più ruoli. Durante la giornata, per esempio, recapitiamo precipitosamente pacchi e lettere, seguendo piani di lavoro stabiliti da altri, mentre la sera siamo in campo ad arbitrare una partita, o nel week end in palestra a condurre una classe di spinning. Situazioni diverse, che si bilanciano, consentendoci di trovare un equilibrio.

Accertato che lo stress è dannoso per tutto l’organismo quando ripetuto con una frequenza per la quale non ci siamo evoluti, Sapolsky c’incoraggia a gestirlo adeguatamente, mettendo in pratica questi accorgimenti: 1) praticare esercizio fisico; 2) fare meditazione; 3) avere più controllo sulla propria vita; 4) cercare e dare sostegno sociale; e 5) sviluppare la flessibilità cognitiva necessaria per essere capaci di reinterpretare i problemi.