La crescente consapevolezza della necessità di un uso più parsimonioso del territorio, ed i recenti provvedimenti legislativi che limitano fortemente lo spreco di suolo, spostano finalmente l’attenzione sulla qualità degli interventi di riuso e trasformazione degli edifici esistenti. In tutti i paesi del centro e del sud del continente è avvenuto e sta avvenendo una conversione della cultura progettuale che si rivolge ai criteri di salvaguardia e alle tecniche di intervento sul patrimonio edilizio, al quale l’Unione Europea ha solennemente dedicato questo anno. È l’occasione appropriata per riflettere sui criteri e sulle tecniche, per verificare la loro efficacia, soprattutto nelle regioni dove la «modernità» è stata interpretata come capacità di rappresentare la cultura contemporanea quasi esclusivamente attraverso la costruzione di edifici nuovi e dove la cultura della trasformazione è meno praticata. È soprattutto in questi paesi che è rilevante il tema della «protezione» del patrimonio, delle misure per individuare gli edifici da escludere dal libero mercato delle sostituzioni e da sottoporre ai vincoli necessari per salvaguardarne, in modi e livelli diversi, la permanenza.
Il patrimonio edilizio è stato selezionato dalla storia, che ci ha tramandato i manufatti ancora validi per il loro valore d’uso o per significati collettivi ancora attivi e condivisi, ma sappiamo che questo meccanismo di selezione non funziona più, almeno da quando l’attività edilizia è diventata un’attività finanziaria che produce alti profitti. È per resistere alla pressione aggressiva di questa attività che è stato inventato il concetto di protezione, e la classificazione di alcuni edifici come «beni culturali».
Ma il sistema è «difensivo», costringe a continui aggiornamenti degli elenchi, a resistenze e a rigidità. A volte, infatti, si conducono strenue battaglie per difendere edifici, che poi il progetto di riuso stravolge con usi e interventi inappropriati, annullando le ragioni stesse che hanno motivato la protezione. Gli edifici che è culturalmente doveroso proteggere integralmente – gli edifici-museo – sono pochi. Per tutti gli altri, la protezione si realizza nell’esame attento e colto del progetto di riuso e trasformazione del manufatto, affinché non comprometta le ragioni della sua architettura.
C’è un’alternativa a questo sistema? L’alternativa è una protezione «non protezionistica», è spostare l’attenzione dai criteri da adottare per scegliere gli edifici da vincolare, alla valutazione del progetto di riuso e trasformazione. Spostare l’attenzione dal vincolo difensivo alla cultura del progetto, dal passato del manufatto al suo futuro. Questo punto di vista sposta la questione dalla protezione della parte di territorio occupata dagli edifici preesistenti – mentre, contemporaneamente, succede che non si interviene nella libera licenza di edificare il paesaggio ancora inedificato – alla cura di tutto il territorio. Questo punto di vista, portato alle estreme conseguenze logiche, comporta di sottoporre a protezione tutto il territorio, tutti gli edifici preesistenti, antichi o vecchi che siano, e tutti gli spazi liberi dall’edificazione. L’interezza del paesaggio deve essere oggetto della medesima cura progettuale.
In Ticino c’è un esempio particolarmente eloquente di come non funziona la protezione intesa in modo «protezionistico» e quindi acriticamente conservatore: il Palazzo del Cinema di Locarno. Intendiamoci, la costruzione del Palazzo è un successo di quel Municipio e va difesa contro coloro che si oppongono agli investimenti nella cultura: finalmente il Festival Internazionale ha la sua sede.
La storia, in breve, di questo importante edificio pubblico inizia quando il Municipio individua il sedime di una vecchia scuola come sede per il nuovo edificio, e bandisce un concorso internazionale per la sua progettazione, lasciando ai concorrenti la libertà di sostituire completamente o trasformare l’edificio. Infatti, la vecchia scuola novecentesca ha un valore architettonico davvero scarso, mentre la sua posizione è strategica, a conclusione dell’antico nucleo, come una cerniera verso la Rotonda e la città nuova. A questo punto, la STAN (Società Ticinese per l’Arte e la Natura) sostiene che la vecchia scuola va protetta, e minaccia ricorsi nel caso di aggiudicazione ad un progetto che ne preveda la demolizione. La presa di posizione della STAN del luglio 2012 paventava addirittura il rischio della previsione di ospitare nel vecchio edificio anche una sala cinematografica, denunciando la sua incompatibilità con la tipologia dell’edificio.
Poiché il privato che contribuiva al finanziamento dell’opera aveva posto condizioni rigide sui tempi della sua costruzione, la giurìa ha comprensibilmente interpretato l’atmosfera cittadina – allarmata dalla minaccia che avrebbe messo a rischio l’attesa della nuova sede del Festival – scegliendo l’unico progetto, tra le diverse decine di progetti presentati, che prevedeva il mantenimento integrale dell’involucro edilizio.
L’esito è da vedere. Per ospitare le attività previste dal programma, sovrabbondanti rispetto all’involucro a disposizione, l’edificio è stato completamente abbattuto (salvo la muratura perimetrale) e sopralzato con il grande volume necessario per contenere quanto previsto. Così la città non ha un’architettura nuova, espressione della cultura contemporanea che rappresenti nel mondo il Festival del Cinema di Locarno. E non ha neanche un’opera di riuso e trasformazione eccellente, che segnali in modo esemplare come si interviene su un edificio storico. Perfino la motivazione nostalgica – ammesso che debba essere presa in considerazione – di chi in gioventù ha frequentato quella ex scuola, è rimasta insoddisfatta, dato che dell’edificio è rimasta solo la sua maschera vuota. È stata cancellata la sua (debole) sostanza architettonica, che non è stata sostituita da una nuova e attuale. È stata la resa della cultura architettonica.
Gli esiti dei concorsi e i verdetti delle giurie vanno rispettati, ma l’esercizio della critica è indispensabile alla conoscenza, e alimenta la democrazia. Dobbiamo prendere atto che oggi la situazione culturale è caratterizzata da una grande debolezza della critica – in generale, non solo della critica architettonica – spesso sostituita da nuovi ed efficaci media pubblicitari finanziati dagli interessi immobiliari. Chi è convinto che il territorio debba essere oggetto di un governo responsabile e colto, e non solo di un libero mercato, deve ripensare ai modi fino ad oggi praticati, alle conoscenze che consideriamo consolidate e indiscutibili, rimettendo in gioco numerose convinzioni. La STAN, le altre associazioni e i movimenti che si battono per la difesa del patrimonio dalla speculazione, possono diventare più forti se, oltre all’azione di denuncia, promuovono la cultura del progetto.