A Locarno il 3 maggio

La Fondazione Federica Spitzer (www.fondazionespitzer.ch) promuove il progetto pluriennale «Un ponte fra i Balcani e il Ticino» in collaborazione con le città di Locarno, Bellinzona, Lugano e con il Cantone. L’intento è quello di ricordare gli anni dei sanguinosi conflitti nella ex Jugoslavia e le vicissitudini dei molti che sono fuggiti verso la Svizzera italiana per salvarsi. Il primo appuntamento – mercoledì 3 maggio, a Locarno – prevede la presentazione di un primo studio sulla diaspora balcanica nel nostro Cantone: Un ponte tra i Balcani e il Ticino. Storie di fuga dalla guerra, emigrazione e accoglienza curato da Pietro Montorfani, ricercatore e segretario generale della Fondazione (sala del Consiglio comunale, dalle 18). Seguirà, al Palacinema, una tavola rotonda con figure di spicco della scena cinematografica balcanica-elvetica e la proiezione del film La terra interiore (The Land Within, 2022) di Fisnik Maxville.

Federica Spitzer nacque a Vienna nel 1911 e nel 1942 decise di seguire volontariamente i genitori nel campo di concentramento di Theresienstadt. Dopo due anni e mezzo di terribile prigionia fu liberata. Giunta in Svizzera, si stabilì a Lugano dove visse fino alla morte, avvenuta nel 2002. Pubblicò il libro-testimonianza Anni perduti. Dal lager verso la libertà (Dadò, 2000).


Per superare i confini e la diffidenza

Un saggio di Pietro Montorfani si concentra sul periodo delle guerre balcaniche e dà voce a chi è fuggito in Ticino
/ 01.05.2023
di Romina Borla

In Ticino la popolazione di origine jugoslava si aggira oggi sulle 30mila unità, poco meno di un decimo degli abitanti. Il primo club jugoslavo nel nostro Cantone è sorto in Leventina, attorno all’albergo della famiglia Barudoni (Faido). Era intitolato a Ivo Lola Ribar (1913-43), braccio destro di Tito ucciso durante la Seconda guerra mondiale. Mentre, a Paradiso, i cinque cognomi più diffusi sono di origine balcanica: Shala, Berisha, Islamaj, Veseli, Gashi. In Ticino i bosniaci sono presenti soprattutto nella Valle del Vedeggio e nei principali centri urbani; i macedoni, concentrati nella regione del Locarnese, sono per lo più ortodossi di tradizione slava. La Chiesa ortodossa serba ha sede a Giubiasco però utilizza per le sue funzioni la chiesa di San Giovanni a Bellinzona e quella di San Rocco a Lugano… Sono solo alcune delle informazioni raccolte in Un ponte tra i Balcani e il Ticino, ricerca fresca di stampa di Pietro Montorfani che ha lo scopo di «dare voce alla diaspora balcanica nella Svizzera italiana degli anni Novanta».

«Lo studio non nasce dal nulla – precisa l’autore – ma rappresenta la continuazione dello sguardo sulla Svizzera italiana che la Fondazione Federica Spizer ha inaugurato con il progetto Lugano Città Aperta, sfociato nella realizzazione del Giardino dei Giusti al Parco Ciani (che rievoca le atrocità dei totalitarismi e rende omaggio ad alcuni ticinesi che hanno accolto e salvato chi era perseguitato)». Il periodo delle guerre balcaniche e la storia dell’esodo verso il nostro Paese non erano stati fin qui esaminati come meritano, continua Montorfani. Il libro intende quindi essere una prima risposta a una lacuna storiografica e raccoglie, tra le altre cose, notevoli testimonianze: dello scrittore Diamant Abrashi, del console onorario serbo Vladimir Miletić, del consigliere comunale di Locarno Marko Antunović, dell’assistente sociale Zaina Gafić Tocchetti, del giornalista Zlatko Hodzić e dell’insegnante di lingua macedone Ana Timovska Mitreva. «Si tratta di voci rappresentative delle rispettive comunità, che in passato si erano magari già espresse pubblicamente, ad esempio in occasione di anniversari o ricorrenze particolari, ma che mai erano state considerate in modo unitario, le une accanto alle altre, perché parte di una storia comune (nella quale però i dettagli e le sfumature contano, eccome)».

Ma facciamo un passo indietro. Già a partire dalla fine degli anni Sessanta molti jugoslavi sono approdati in Svizzera, spiega l’intervistato. Si trattava, da un lato, di lavoratori qualificati – medici, infermieri, fisioterapisti spesso diplomatisi all’Università di Belgrado – dall’altro di manovali attivi nell’edilizia, camerieri e ristoratori con lo statuto di stagionali. «Nonostante il quadro idilliaco offerto dalla propaganda del partito, sin da prima della morte di Tito, avvenuta nel maggio del 1980, le difficoltà economiche in Jugoslavia non mancavano, soprattutto in alcune regioni del centro-sud (Bosnia, Montenegro, Kosovo, Macedonia, Serbia meridionale)». Poli di attrazione, in Ticino, erano datori di lavoro importanti come la Monteforno di Bodio, l’ospedale di Faido o il nuovo cantiere autostradale del San Gottardo. «Questi primi immigrati balcanici erano molto attivi», dice Montorfani. «Si riunivano, fondavano associazioni e squadre di calcio. Si concepivano come jugoslavi. Ritenevano che la Jugoslavia di Tito avesse dei pregi, anche se ammettevano il peso delle limitazioni della libertà. Erano fieri di identificarsi con la realtà di origine, in contrasto col resto del mondo occidentale, dell’Europa».

Poi qualcosa è cambiato. Il susseguirsi delle guerre che hanno infiammato la regione per un decennio – osserva lo studioso – dapprima tra Croazia e Serbia (1991-95), poi in Bosnia ed Erzegovina (1992-95) e infine in Kosovo (1998-99), «ha avuto quale esito in Ticino altrettante ondate migratorie unite a piccole o grandi crisi umanitarie, a cui le istituzioni e la società ticinese hanno risposto, in genere, in modo adeguato. Anche se non sono mancati momenti di tensione, come il rifiuto delle autorità federali di accogliere a Chiasso i rifugiati bosniaci privi di visto nel dicembre del 1992, o il loro rimpatrio in massa nell’agosto del 1997, o ancora l’invito del Comune di Ascona a non assumere più croati negli alberghi». La prospettiva, si diceva, è cambiata: chi è giunto dai Balcani negli anni Novanta la guerra l’ha vissuta, ne ha conosciuto gli aspetti più truci. Pensiamo ai lager, alla pulizia etnica e agli stupri di guerra. «In quegli anni anche nella Svizzera italiana sono riemersi nazionalismi e tensioni etniche, specie dopo il bombardamento di Belgrado da parte della NATO del 1999. Chi prima si diceva genericamente jugoslavo era passato improvvisamente a concepirsi solo come croato, bosniaco, serbo, macedone e così via». La frammentazione in varie associazioni, club e squadre sportive divise per etnia è una caratteristica infatti della presenza balcanica in Ticino a partire dal 1991, un quadro che si è vieppiù complicato e che soltanto in tempi recenti ha cominciato piano piano a ricomporsi, grazie a collaborazioni tra gruppi e iniziative comuni. «La mia interpretazione è che alcune delle realtà nate in quel periodo avevano tra gli scopi proprio la difesa di un certo orgoglio nazionale. Si evince dai nomi di queste associazioni, dalla volontà di mantenere vive le tradizioni, i canti patriottici ecc. La memoria dei conflitti, purtroppo, continua ad agire anche sulle nuove generazioni, sebbene non manchino donne e uomini di buona volontà. Sicuramente il contesto elvetico favorisce il dialogo e la costruzione di ponti fra le varie comunità. In ogni caso tanto rimane ancora da fare».

Ma torniamo al saggio. Altra parte interessante è quella che fotografa la realtà attuale: dove risiedono in maggioranza le varie comunità balcaniche in Ticino, da dove vengono, qual è la loro fede, dove si riuniscono? Ad esempio: fonti non ufficiali stimano che la comunità serba ticinese, compresi i numerosi naturalizzati, superi le 10mila unità. I croati sono attualmente circa 4500, risiedono per lo più nel Locarnese e provengono soprattutto dalla regione bosniaca a maggioranza croata della Posavina. Meno numerosa è la comunità albanese. Nel complesso si stima inoltre che i cittadini originari della Macedonia del nord residenti in Ticino siano attorno ai 4000. I bosniaci di fede musulmana si riuniscono nel Centro bosniaco di Mezzovico, retto dall’Associazione Džemat Ticino. Montorfani afferma che il legame col Paese di origine di molte persone di origine balcanica rimane forte: «Lo testimonia il fatto che tanti fanno la spola continuamente. Ci sono bus che partono settimanalmente dal Luganese verso la Croazia e altri casi simili».

Non resta che leggere lo studio, quindi, che arriva in un momento storico particolare, viste anche le drammatiche similitudini con la crisi ucraina – la guerra di nuovo in Europa – che ha portato alla fuga dal Paese di milioni di persone. «Uno dei fronti principali dei conflitti nella ex Jugoslavia fu proprio la Krajina, una regione che si estende dall’entroterra della Dalmazia al corso della Sava, una zona di sovrapposizione etnica (croati, bosniaci e serbi). Krajina significa proprio frontiera. Un termine che fa correre in fretta il pensiero all’Ucraina: le frontiere contese del Novecento che tornano purtroppo di attualità».