«Per me è ancora una professione da sogno»

Intervista - A colloquio con Monica Fehr, direttrice della più grande scuola di giornalismo svizzera, il MAZ, Medien Ausbildungszentrum
/ 14.03.2022
di Roberto Porta

Monica Fehr dirige da due anni il MAZ, la scuola svizzera più importante nel settore del giornalismo. Dall’aprile del 2021 è anche presidente del Consiglio svizzero della stampa, l’organo di ricorso in materia di etica dei mass media. In precedenza ha lavorato per il gruppo editoriale grigionese Somedia, con vari compiti giornalistici. Ha iniziato la sua carriera in questa professione nel 1997 presso Radio Grischa, una radio privata locale, che oggi appartiene al gruppo Somedia.

Signora Fehr, torniamo un attimo alla bocciatura in votazione popolare del pacchetto di aiuti ai media, lo scorso 13 febbraio. Lei come legge questo rifiuto di aiutare il settore dell’informazione?
Credo che la qualità del giornalismo nel nostro Paese non potrà di certo migliorare, anzi si indebolirà. La campagna in vista di questa votazione è stata molto animata. Molto spesso ci si è però dimenticati di dire che una parte degli aiuti sarebbero stati destinati alla formazione dei giornalisti o al consiglio svizzero della stampa, l’organo che si occupa del rispetto delle regole deontologiche nel nostro settore. Aspetti centrali a mio modo di vedere, come lo sarebbero stati anche gli aiuti per l’Agenza telegrafica svizzera o per l’associazione che si impegna per una maggiore trasparenza nei rapporti con le istituzioni. Temi molto importanti per il giornalismo e per la sua qualità.

Vedremo se e come le Camere federali vorranno ora riprendere in mano questo dossier. Durante la campagna in vista della votazione popolare il fronte del no agli aiuti ai media si è detto pronto a varare un secondo pacchetto, che includa questa volta solo i piccoli e medi gruppi editoriali e non più le principali testate del Paese. Detto questo, veniamo ora a lei, Martina Fehr, cosa l’ha spinta ormai 25 anni fa a lanciarsi nella professione della giornalista?
Devo dire che è una professione che dà senso alle mie giornate, è qualcosa di vibrante, ogni giorno il nostro lavoro è diverso dal giorno precedente. E poi si è informati, si incontrano tante persone e questo è sempre un arricchimento, anche personale. Penso che abbiamo un ruolo importante nell’informare e nel dare un ordine ai fatti di una giornata. È una professione molto creativa e si è molto liberi nel farlo. Insomma questo è ancora il lavoro dei miei sogni, anche dopo tutti questi anni.

Lei ha iniziato presso una radio privata locale a Coira, allora si chiamava Radio Grischa. Era il 1997, un’altra era per la nostra professione…
Si imparava lavorando in quei tempi. Ci si arrangiava come si poteva ma con molta passione. Oggi tutto è diventato molto più professionale, grazie appunto alla formazione, anche quella continua. A quei tempi io e i miei colleghi dovevamo occuparci solo della radio e dei nostri servizi. Oggi il giornalista deve essere pronto a dare il proprio contributo anche in altri settori, per il sito web della testata per cui lavora ad esempio o sui social media redazionali. Il nostro lavoro è sempre più spesso la somma di molteplici compiti. In molte realtà, soprattutto quelle più piccole, si passa costantemente da un settore all’altro. In passato tutto era più stabile, chi lavorava per la radio faceva quello e basta, e lo stesso valeva per chi scriveva per un giornale. E c’era più tempo per preparare il proprio articolo o il proprio servizio.

Lei parla di tempo, del tempo a disposizione per documentarsi, scrivere, rileggere o rivedere un articolo. Cosa dire oggi di questo «fattore tempo»?
Sì, nel giornalismo il tempo è diventato un bene sempre più raro. Il problema sta appunto nel numero sempre più elevato di compiti che si assegnano a un giornalista. Si va a una conferenza stampa, quando termina bisogna spedire una fotografia o una dichiarazione per il sito online della propria testata. Poi ci si dedica ai social media, con un «post» per lanciare la notizia. In seguito si passa alle interviste e alla realizzazione vera e propria del proprio articolo. Tutto questo richiede una grande rapidità di esecuzione. I nostri studenti qui al MAZ di Lucerna ci dicono spesso che da noi si impara ad approfondire un tema, ma che poi nelle redazioni tutto questo non succede, non ci sono le condizioni per farlo. Sarebbe importante invece poter disporre del tempo necessario per poter approfondire una tematica e tenere alta la qualità dei prodotti giornalistici.

C’è la lotta contro il tempo – chiamiamola così – ma c’è anche una fiducia da mantenere o riconquistare presso il pubblico. Su quali strumenti di lavoro occorre far leva?
Si deve puntare sull’autorevolezza e sulla trasparenza. Penso che gli ultimi due anni, segnati dalla pandemia, hanno reso il nostro compito ancora più difficile. C’è chi ritiene che i media siano troppo vicini alle autorità, con uno sguardo critico troppo debole. Per questo – e ritorno al discorso di prima – il fattore tempo è davvero fondamentale anche per guadagnare la fiducia del pubblico. E qui è importante dare spazio alla pluralità delle opinioni e far leva sulla propria conoscenza delle tematiche per poterle spiegare nel miglior modo possibile. E poi bisogna riuscire a spiegare al pubblico come funziona il nostro lavoro. Mostrare ciò che siamo e come lavoriamo.

C’è bisogno anche di auto-critica? Esercizio che spesso mette in difficoltà i giornalisti….
Questo è davvero un esercizio molto difficile (ride…). Occorre dare importanza al rapporto con il pubblico, cercare di capire quali sono le ragioni delle sue critiche. La pandemia ci ha fatto capire quanto sia importante riuscire a risolvere questi problemi, perché un fatto è certo: nel pubblico c’è sete di informazione, se sa essere di qualità.

Lei da due anni dirige il MaAZ, la più importante scuola svizzera di giornalismo. Un onore ma anche una grande responsabilità.
Sì, è proprio così. Noi cerchiamo di essere un bastione in difesa del buon giornalismo. Vogliamo insegnare il mestiere nelle sue diverse sfaccettature ma anche trasmettere un sapere relativo al comportamento del giornalista nei confronti del pubblico. Da tutto questo dipende la qualità del suo lavoro e la sua autorevolezza nella società.

La digitalizzazione sta trasformando la nostra professione. Nessuno ha la sfera di cristallo, ma lei come se la immagina tra qualche anno?
Spero che si possano diminuire i compiti che un giornalista deve saper svolgere. E che si possa mettere l’accento sulle conoscenze specifiche di ogni singolo redattore. Per evitare di dover saltare ogni giorno da un tema all’altro. E poi c’è un altro interrogativo da porsi, tra cinque o dieci anni il giornale, di carta, come lo conosciamo oggi ci sarà ancora oppure sarà già stato sostituito dalle piattaforme online? Difficile da dire, penso però che il giornalista dovrà sempre di più sapere raccontare un fatto, una notizia, una storia in modo multimediale. Da lì non si scappa.

Da quasi un anno lei è anche alla testa del Consiglio svizzero della stampa, che veglia al rispetto delle regole deontologiche nella nostra professione. E anche qui le sfide non mancano…
Questo è un aspetto fondamentale. Si dice che i media siano il quarto potere. Per questo è importante che il nostro settore abbia un codice da rispettare. Certo il consiglio svizzero della stampa non è un tribunale ma c’è un dovere morale nel giornalismo, che viene appunto difeso e promosso da questo consiglio. Una bussola e delle direttive da seguire. E questo aiuta anche la credibilità e la autorevolezza di chi svolge la nostra professione.