Onda su onda?

Covid-19 - Chiarezza, realismo e responsabilità individuale per contenere un aumento dei contagi
/ 27.07.2020
di Maria Grazia Buletti

Sul fronte della pandemia, in Svizzera le prime settimane di luglio sono coincise con un ritorno dell’aumento di contagi. Il nostro Cantone non è in controtendenza, malgrado il numero contenuto dei nuovi positivi, almeno per ora. Questa situazione apre la porta ad alcune perplessità da parte della popolazione sulle indicazioni degli allentamenti diramate in precedenza dalle autorità federali. È inoltre palpabile una sottile confusione dovuta al susseguirsi incessante di notizie scientifiche (o che sono spacciate per tali) spesso contraddittorie e prive di evidenze sull’efficacia di farmaci, terapie e improbabili imminenti vaccini. 

Il nostro Cantone ha reagito adottando un primo giro di vite delle misure di protezione prontamente emanate da un Consiglio di Stato sempre «sul pezzo» (malgrado l’uscita dallo stato di necessità durato oltre tre mesi) che ha ridotto da 300 a 30 il numero massimo di persone negli assembramenti, introducendo restrizioni degli orari di apertura e altre misure collaterali per i locali notturni, allineandosi infine all’obbligo dell’uso della mascherina sui mezzi pubblici, consigliata pure vivamente negli ambienti chiusi dove non è certo riuscire ad assicurare il distanziamento (negozi, uffici e via dicendo). 

Certo è che la Svizzera non è pronta a tornare alla normalità, intesa come quella che vivevamo prima del Coronavirus. L’incertezza di una seconda ondata si fa strada e alimenta il fuoco sulle incognite dei mesi a venire. Seconda ondata che già si prospetta presente, a parere dell’infettivologo e direttore dell’Epatocentro Ticino professor Andreas Cerny: «Abbiamo avuto il picco della prima ondata nella seconda metà di marzo, con 70 ricoveri per Covid-19 in 24 ore tra La Carità e Moncucco, poi la calma che è risultata da tutte le misure intraprese e ben messe in atto dalla popolazione. Ciò che ora sta scatenando la seconda ondata risale alla data del 7 luglio, quando è stato allargato il permesso di assembramenti da 30 a 300 persone sull’arco di due settimane, decisione presa dal Consiglio Federale contro il parere della task force». 

Secondo Cerny, mantenere più a lungo il 30 come numero massimo di persone negli assembramenti sarebbe servito «ad allenare nella raccolta dei dati dei partecipanti che, a loro volta, avrebbero imparato come comportarsi; si doveva aspettare almeno 4 o 5 settimane per vedere se ci sarebbero stati problemi coi nuovi contagi». Perché non più di 30 è facile da intuire: «Il contact tracing è ancora possibile con 30 persone, ma cosa impensabile con 300, come hanno dimostrato i due casi del Flamingo a Zurigo e del Woodstock in Ticino; il risultato è che oggi il contact tracing come metodo efficace per individuare e confinare i focolai pare sia già ingestibile». 

A favore di queste considerazioni «canta» il tasso di riproduzione del contagio del virus: «L’ultima stima al 26 giugno è di 1,95: ogni persona contagia due persone e la curva dei contagi prende l’andamento esponenziale che nessuno di noi vorrebbe». In Ticino è minore, ma sta comunque salendo: «È matematico: da 1,58 a 3,66 si stima il tasso e questo non ci fa più credere che il contact tracing riesca a individuare e spegnere i singoli focolai». 

Il nostro interlocutore, dati, grafici e tabelle alla mano, non dà le buone notizie che vorremmo sentirci dare; d’altronde, come dare bad news senza creare diniego? «Noi medici dobbiamo fare squadra con i media ed è importantissimo che ci rendiamo disponibili senza creare confusione». A questo punto, è necessario provare a fare un po’ di chiarezza laddove sia possibile, senza dimenticare quanto gli specialisti hanno ripetutamente affermato: si tratta di un virus a noi ancora molto sconosciuto, contro il quale stiamo imparando a difenderci, e per ora bisogna attenersi ai dati osservazionali delle tantissime ricerche in corso, senza dimenticare che quello che si osserva oggi potrebbe non essere la verità di domani. In parole povere: dobbiamo davvero prendere con le pinze tutta la grande mole di informazioni frammentarie che riceviamo, affidandoci alle (poche) certezze che abbiamo: «Fra queste continuiamo a mettere in pratica il comportamento adeguato delle misure di protezione che abbiamo oramai imparato a conoscere: distanziamento sociale, disinfezione e pulizia delle mani e uso della mascherina». 

Occorre dire una volta per tutte (come già ha più volte ripetuto il vaccinologo dottor Alessandro Diana) che il vaccino non sarà dietro l’angolo, per una serie di ragioni di ricerca e di efficacia, malgrado ogni tanto qualcuno gridi «al lupo! Al lupo!»: «Trovarlo in fretta farebbe la differenza ma non è realistico; penso piuttosto a un trattamento poco caro ma efficace, più facilmente raggiungibile: i vaccini sono sempre qualcosa di delicato perché parliamo di materiale biologico che, per la sua natura preventiva, deve ottemperare a una provata efficacia con pochi o nulli effetti collaterali. Ora che siamo più preparati nella diagnosi, una terapia è la migliore soluzione ottenibile in termini ragionevoli». 

Chiediamo chiarimento sugli anticorpi degli asintomatici che, pare, svaniscano in 2/3 mesi; così fosse, significa che chi si è ammalato non è immune dall’ammalarsi una seconda volta. Cerny ammette che queste notizie «creano confusione» e le spiega con «la grande fame di avere notizie e risultati»: «In Svezia, uno studio autorevolissimo di Karolinska ha evidenziato che, a livello di immunità, le cellule T sono in grado di controllare il virus mantenendone la memoria a lungo termine, pur non essendo più presenti gli anticorpi». 

Anche questo è da prendere con le pinze: «È uno studio interessante e autorevole, ma recentissimo (29 giugno) che, con le dovute verifiche scientifiche, darebbe una certa speranza sul fatto che una branca del nostro sistema immunitario terrebbe conto del contatto precedente col virus e sarebbe dunque in grado di reagire una seconda volta». Siamo sempre sul punto di prendere atto della ricerca galoppante, senza perdere la consapevolezza di non poter ancora trarre conclusioni certe. Certo però è che l’immunità di gregge rimane una chimera non percorribile. 

Ciò è confermato pure dai primi dati dello studio cantonale che indica come solo il nove per cento circa della popolazione ticinese abbia sviluppato anticorpi dopo essersi ammalata di coronavirus: «Troppo pochi sono anche in Svezia, dove hanno puntato su un’immunità di gregge che però si è fermata a circa il 15 per cento, a fronte dell’85/90 necessario ad assicurarla». 

Affidiamoci alle poche certezze che gli specialisti e la ricerca stanno costruendo, applichiamo le misure di protezione responsabilmente e, con sano realismo, pensiamo a quanto affermato da Peter Piot, il virologo di fama mondiale che ha scoperto l’Ebola: «La pandemia di Coronavirus è appena cominciata, ma la seconda ondata potrebbe avere caratteristiche molto differenti dalla prima».