Tasiilaq, Groenlandia Orientale, 65°37'N 37°38'W, primi di dicembre, 2022. Dalla finestra, ore 16.15, buio completo: le montagne dall’altra parte del Kong Oscars Havn svettano sotto l’aurora boreale, mentre il mare si accende di verde. Di giorno, il villaggio di piccole case colorate nelle quattro ore di luce si veste di cieli rosa pallido, pervinca, azzurro carta da zucchero, viola, porpora, oro. Nell’aria i corvi e in lontananza l’ululato dei cani.
Il fiordo di fronte all’abitato più popoloso (2500 anime) della costa est della seconda isola più grande al mondo è totalmente libero dal ghiaccio. Le temperature di questi giorni sono insolitamente alte. Le montagne sono appena imbiancate e le tempeste delle ultime settimane hanno portato più acqua che neve. Parlando con la gente del luogo c’è un misto di preoccupazione e inquieta euforia.
Gli anziani sono perplessi: il mare gela sempre più tardi e le previsioni meteo sono sempre meno regolari. Caja, che da ragazza, correvano gli anni Novanta, nell’ambito di un programma di scambi interculturali all’estero, studiò per un anno in Ghana, sorride e mi conferma che lei preferisce così. Da bambina doveva uscire in slitta ad aiutare i cacciatori della sua famiglia e ha avuto un paio di incidenti, due brutte cadute che le hanno lasciato degli strascichi, e i dolori si sentono di più quando il freddo morde. Aggiunge però che suo padre, da che ha memoria, non si ricorda di un clima così mite in questa stagione. In genere a inizio dicembre la gente del posto ha già tirato in rada o a terra le piccole imbarcazioni, prima che il mare ghiacci. Una volta che il fiordo sarà solidamente stretto nella morsa del gelo, lo si potrà attraversare a piedi o con le slitte trainate dai cani.
Fino a 150 anni or sono la costa orientale della Groenlandia era una delle zone più remote del pianeta: lo stretto di mare che la separa dall’Islanda, infatti, era infestato da distese di ghiaccio che la Transpolar Drift Stream trascina da nord (dalle coste della Siberia) verso l’oceano Atlantico. I primi tentativi di esplorazione condotti dai fiordi occidentali islandesi prevedevano una finestra temporale incerta tra giugno e agosto, per tentare di arrivare dall’altra parte. Le barche all’epoca erano di dimensioni ridotte e in legno. Mare agitato, iceberg e condizioni meteo spesso proibitive fecero naufragare diverse spedizioni. Furono in molti a partire senza mai fare ritorno, interi equipaggi inghiottiti dal mare, di cui non si seppe più nulla. La popolazione Inuit locale, arrivata su questa costa si stima 2000 anni prima di Cristo, rimase legata alle tradizioni e a uno stile di vita nomadico fino all’arrivo dei danesi che fondarono nel 1894 l’insediamento di Ammassalik (Tasiilaq).
Le esplorazioni delle regioni polari ci hanno regalato pagine memorabili colme di imprese e uomini che hanno sfidato la natura più avversa per amore dell’avventura e della scienza. Capitani coraggiosi, ricercatori indomiti, visionari abbagliati da queste distese di ghiaccio e mare, che hanno cercato di spingere sempre un po’ più in là il confine tra noto e ignoto. I loro racconti hanno contribuito alla nascita e all’espansione del nostro immaginario su queste terre estreme che anche ai giorni nostri continuano a esercitare un fascino magnetico. Ancora oggi c’è chi va in Groenlandia, in cerca di extreme expedition, convinto di trovare gli eschimesi vestiti di pelle di foca, che vivono negli igloo e si strofinano il naso per salutarsi.
Quello che spesso manca in questa narrazione è il prezzo pagato dalla popolazione locale, gli Inuit, per essere stata civilizzata e salvata dal paganesimo. Oggi si parla praticamente solo di quanto questi indigeni (che qui non sono una minoranza etnica, ma più dell’80% della popolazione) siano preda di alcolismo, depressione (la Groenlandia, 55mila persone, è il Paese al mondo in cui ci si suicida di più), indolenza. Le case «in stile europeo» costruite dal governo danese, sono colorate, ma senza acqua corrente. Il sistema fognario inesistente. A scuola si insegna il danese e il groenlandese dell’ovest: il dialetto dell’est resta solo parlato a casa. Se a casa è rimasto qualcuno che lo parla. Molti cercano lavoro altrove, a Nuuk (la capitale), dove si fa business, o negli insediamenti a sud, che sono verdi e ci si possono persino allevare le pecore. I figli, li si lascia a casa, da qualche parente.
I ragazzi che hanno voglia di studiare vanno comunque a ovest, dove c’è più movimento e si concentrano gli investimenti economici, o in Danimarca. Molti tornano dopo poco, perché soprattutto nelle città europee restano frastornati. Troppo rumore, troppo traffico. Ansia. Pressione. Del resto, come ha sintetizzato bene Barry Lopez, nel suo magistrale Arctic Dreams, «Per alcune persone, ciò che sono non finisce con la loro pelle, ma arriva dove i sensi toccano la terra. Se la terra viene sommariamente sfigurata o riorganizzata, questo provoca loro dolore psicologico».
Sbircio di nuovo dalla mia finestra: questa notte è nevicato. Finalmente. Tutto è bianco, tranne i corvi. Non si vedono più le lattine vuote, abbandonate a decine per strada, gli elettrodomestici guasti che nessuno sa riparare, le gomme bucate, la barca guasta, arenata a riva. Per un attimo torna tutto perfetto. Anche i cani sembrano felici, l’odore della neve vuol dire che si torna presto a correre. Finalmente.
Quando il ghiaccio sarà abbastanza spesso e solido, i pescatori risaliranno la costa e praticheranno fori per pescare. I cacciatori più esperti usciranno in cerca di uccelli e foche, che nell’alimentazione tradizionale hanno lo stesso posto che polli, suini e bovini hanno per noi. È l’unica fonte di proteine fresche. Non ci sono allevamenti qui sulla costa est, il cibo arriva congelato sulle navi cargo da Danimarca e Islanda. E i cani non sono abituati a scatolette e crocchini. Hanno bisogno di mangiare bene: presto correranno anche per i turisti in arrivo nella stagione invernale.
La gente a Tasiilaq sorride sempre, quando la incroci per strada. Un saluto non si nega a nessuno. Per millenni si sono spostati seguendo la linea del mare gelata e i suoi capricci. Vivevano in campi invernali, costruiti con ghiaccio e neve in inverno, in abitazioni fatte di roccia, erba e torba in estate. Sono arrivati quasi allo sterminio nei periodi più freddi, hanno conosciuto abbondanza in quelli più miti e stabili. Oggi continuano a vivere una vita resa difficile da regole imposte da una cultura non loro e un clima che cambia troppo in fretta, ma sempre eroicamente aggrappati a queste latitudini, come le loro case sulle rocce di Tasiilaq.