Nootropi e cultura digitale

Neuroscienza - Nell’era del biohacking il cervello è diventato un organo da manipolare
/ 10.10.2016
di Lorenzo De Carli

Distribuito nel 2014, interpretato da Scarlett Johansson, Morgan Freeman e Min-sik Choi, Lucy di Luc Besson è un film utile per comprendere le aspettative che stanno orientando la ricerca dedicata ai nootropi, quelle sostanze – note anche come smart drugs e smart nutrients – che hanno la prerogativa di potenziare le capacità cognitive del cervello.

Lucy è costretta a svolgere il ruolo di corriere della droga. A tale scopo, una banda di criminali le impianta nell’addome una serie di sacchetti contenenti una sostanza denominata CPH4, la versione sintetica di un enzima che le donne in gravidanza producono per avviare lo sviluppo del feto. La protagonista acquista straordinarie doti mentali e fisiche quando, lacerandosi i sacchetti, la sostanza contenutavi viene assorbita dal suo corpo. La metamorfosi è rapida e profonda. Sbarazzatasi della banda che l’ha vessata, torna a casa e in pochi minuti memorizza tutti gli scritti di un noto neuroscienziato: Samuel Norman. 

Il montaggio parallelo del film mostra da un canto le vicende di Lucy, dall’altro una conferenza di Norman, il quale dichiara che i membri della nostra specie usano solo il dieci per cento delle loro capacità cerebrali e che, avessero accesso all’estesa parte restante, si scoprirebbero dotati di poteri inimmaginabili. Quando le due linee di sviluppo narrativo s’incrociano, Lucy dichiara al professor Norman che la sostanza assimilata dal suo corpo le sta facendo fare l’esperienza prefigurata dai sui studi ma che, tuttavia, sa che avrà vita breve. A Parigi, assimilata un’altra dose di CPH4, Lucy compirà un viaggio nel tempo e nello spazio, nel corso del quale – interfacciatasi con la rete computazionale dell’Università – acquisirà conoscenze, che trasmetterà al professor Norman per mezzo di una chiavetta USB.

I tre temi principali del film sono l’esistenza di sostanze in grado d’incrementare le nostre capacità cognitive, il funzionamento del cervello e il rapporto con l’informatica. Non è un caso che di smart drugs si è cominciato a parlare alcuni anni fa, in particolare nella comunità degli sviluppatori di software. In questo ambiente le «droghe 2.0» hanno potuto attecchire per due motivi: anzitutto per l’ovvia ragione che uno stile di produzione che non conosce distinzione tra lavoro e tempo libero è terreno fertile per coltivare l’uso di sostanze capaci d’incrementare con l’attività cognitiva anche i profitti; in secondo luogo anche per la meno esplicita ragione che una componente importante della cultura digitale è la pratica dell’hacking, vale a dire l’insieme delle attività utili per conoscere e modificare hardware e software. È in questo contesto, mentre la pratica dell’hacking cominciava a sconfinare anche nell’ambito biologico, che le smart drugs sono state recepite come sostanze in grado di estendere la pratica dell’hacking anche al proprio cervello.

Le sostanze nootropiche rilasciano agenti neurochimici – in generale neurotrasmettitori, enzimi oppure ormoni – in grado d’incrementare l’apporto di ossigeno al cervello, oppure di stimolare la crescita dei neuroni. L’elenco di queste sostanze è molto lungo e alcune sono contenute in alimenti al di sopra di ogni sospetto, come l’olio di pesce, i mirtilli, il tè verde, il cacao, ecc.; ma quelle più usate sono presenti in medicamenti che la ricerca farmaceutica ha sviluppato per aiutare i pazienti affetti da malattie degenerative come l’Alzheimer o il Parkinson. I nootropi agiscono incrementando il livello dei quattro neurotrasmettitori più importanti del nostro cervello: acetilcolina, dopamina, norepinefrina e serotonina.

I nootropi colinergici, per esempio, aumentano la disponibilità di acetilcolina, elemento fondamentale per la memoria e la concentrazione. Inoltre è utilizzata dal nostro cervello quando impegnato in processi come il pensiero astratto, il calcolo oppure nelle attività creative. Non c’è azienda produttrice di supplementi alimentari che non abbia in catalogo questo tipo di nootropo, di solito nella forma dei precursori dell’acetilcolina o della colina, come per esempio gli aminoacidi Acetil-L-carnitina o Alpha-GPC. Di questa stessa classe fa parte il primo e più usato medicinale nootropo, il Piracetam, acquistabile solo con ricetta in Europa, liberamente disponibile negli Stati Uniti. I nootropi però non vengono solo classificati in funzione dei neurotrasmettitori con i quali interagiscono, ma anche in base agli effetti desiderati. Così, mentre l’estratto dell’erba Bacopa monnieri viene usato per migliorare memoria e concentrazione, quello dell’erba Ashwagandha è usato come tonificante per normalizzare il metabolismo e ridurre il livello di ansia e stress.

I siti web dedicati a quella forma di biohacking estesa fin dentro il proprio cervello non mancano, così come si stanno moltiplicando le formulazioni di supplementi alimentari con effetti nootropici. Il rischio per la salute è elevato. Se pure la conoscenza del cervello sta facendo rapidi progressi, si tratta comunque di un organo troppo complesso per avere l’illusione di poterlo modificare a piacimento come se fosse un hardware informatico.

Ma c’è dell’altro, oltre agli effetti collaterali del biohacking prodotto con i nootropi: c’è l’illusione che noi saremmo gli «utenti» del nostro cervello, quelli – per così dire – seduti alla cabina di comando. Questa illusione è alla base di Lucy. Sia la protagonista, sia il neuroscienziato, sono convinti non solo di essere gli utenti del loro cervello, ma di poterne usare in proporzioni variabili. Da una prospettiva evoluzionista, è un grave errore epistemologico. A parte il fatto che la selezione naturale è caratterizzata dall’estrema parsimonia e che dal suo «setaccio» non «passano» organi o tessuti inutili, nel corso della nostra storia evolutiva, il nostro cervello non è diventato sempre più grande e sempre più complesso perché noi ne potessimo disporre a piacimento. È vero tutt’al più il contrario, ovverosia che quell’entità che chiamiamo «io» è emersa a mano a mano che il cervello diventava più complesso, e che è emersa perché «tratto» utile alla nostra sopravvivenza. 

Come ben dimostrano gli studi di Nicolas Numphrey, la coscienza è un’utile illusione cognitiva, ma, proprio in quanto tale, è un fenomeno emergente del cervello. Il rischio che corriamo con il biohacking è proprio quello di compromettere il funzionamento di quell’organo che ci permette di dire «io», – il rischio di tagliare il ramo su cui sediamo.