Non solo Bondo

Catastrofi naturali - In Val Bregaglia la prevenzione ha evitato il peggio, ma questi eventi straordinari saranno sempre più frequenti nell’arco alpino
/ 18.09.2017
di Fabio Dozio

«La mattina del 23 agosto, una bella giornata, verso le 9.30 abbiamo visto un gran polverone alzarsi nella valle. Sembrava nebbia, o un’enorme nuvola di fumo, invece era la montagna che scivolava a valle». Chi ha vissuto da vicino è ancora esterrefatto, a più di due settimane dall’accaduto. È il racconto di una signora di Soglio, il villaggio che sta di fronte a Bondo, in alto, in Val Bregaglia.Sul pizzo Cengalo la montagna è andata in frantumi, ha invaso il fiume Bondasca ed è rotolata a valle trasformandosi in frana, colata, flusso di detriti, di roccia, acqua, ghiaccio e terra, che tutto assieme ha colpito case e fabbricati, coperto la nuova strada cantonale e lambito la frazione di Spino. Otto dispersi, escursionisti sorpresi sulle pendici dei monti, e il villaggio di Bondo evacuato.

«4 milioni di metri cubi, – aggiunge la signora – mi hanno spiegato che questa casa, dove c’è il negozio, può essere di circa mille metri cubi… ecco, quattromila case come questa sono venute giù. Ora sono scappati tutti, anche dal paese che si trova in zona verde, che non sarebbe pericolosa».

Ci si aspettava la frana sul pizzo Cengalo, perché da un po’ di tempo la roccia si muoveva, ma non si prevedeva che nel fondovalle arrivasse quella mostruosa informe massa distruttiva.

Le montagne si sono sempre mosse e in passato è anche accaduto di peggio. Sempre in Val Bregaglia, poco più a ovest, a Piuro, il 4 settembre del 1618, dopo alcuni giorni di pioggia, dal versante settentrionale del Mottaccio si staccò una frana di circa 6 milioni di metri cubi che seppellì quasi tutto il borgo con i suoi 1200 abitanti: nessun sopravvissuto.

I tempi sono cambiati, l’attenzione nei confronti delle montagne e dei pericoli naturali negli ultimi anni si è sviluppata. Sul pizzo Cengalo nel 2011 ci fu uno scoscendimento che mise in allarme le autorità. Da allora la zona è monitorata e sul fondovalle è stata costruita una vasca di contenimento che ha permesso di attutire l’attuale disastro.

Sulle cause di questo cataclisma il dibattito è aperto, ma non si può prescindere da un fattore: il riscaldamento climatico. In Svizzera dal 1950 a oggi la soglia dello zero termico si è alzata di 300 metri. La temperatura media dell’arco alpino è aumentata, dal 1864, di quasi 2 gradi centigradi. Sul resto del pianeta di circa la metà. Ma è soprattutto in questi ultimi anni che si è misurato un caldo record. Le montagne si scaldano e i ghiacciai si sciolgono.

«Negli ultimi 20-50 anni Meteo-Svizzera registra un chiaro innalzamento delle temperature dell’aria, anche nelle regioni di montagna – ci spiega Marco Gaia responsabile di MeteoSvizzera a Locarno. – Spesso ci si sofferma sulla scomparsa dei ghiacciai, trascurando il fatto che del ghiaccio è presente anche nel terreno o nella roccia a partire da una certa quota. Si parla in questo caso di permafrost, terreno perennemente gelato. Il riscaldamento dell’aria penetra lentamente anche nel terreno portando alla graduale fusione di questo ghiaccio invisibile perché sottoterra. Finché il permafrost è gelato, esso dà stabilità; mentre quando il ghiaccio fonde il terreno si può sfaldare e diventa instabile. Se questa sia la causa effettiva del crollo di roccia avvenuto al Cengalo, bisogna chiederlo ai geologi che stanno analizzando quanto avvenuto. Non è necessariamente la sola possibile causa. In futuro, comunque, su tutto l’arco alpino, bisognerà adottare provvedimenti adeguati per gestire la diminuzione delle zone in cui è presente il permafrost».

I geologi sono cauti e in genere citano fra le cause degli smottamenti non solo il riscaldamento climatico, ma anche altri fattori, quali la geologia, o meglio la conformazione delle rocce, la topografia e quindi le particolarità di ciascuna montagna.

«La predisposizione geometrica della fratturazione dell’ammasso roccioso è stato il fattore determinante per il crollo. – ci dice Giorgio Valenti, per molti anni geologo cantonale in Ticino e da poco pensionato – È possibile che con il ritiro del ghiacciaio, al piede della parete sia venuta a mancare una forza di contrasto: il riscaldamento globale ha quindi giocato un ruolo ma non primario e sicuramente inferiore a quello dato dalla situazione geomeccanica della roccia».

Il glaciologo Giovanni Kappenberger ha visitato la zona la prima domenica di settembre. «Dai pendii sopra Soglio, – ci dice – ho visto sul ghiacciaio Vadrett da Turbinasca, vicino al Cengalo, dei buchi di qualche metro di diametro, che probabilmente sono causati da uscite d’acqua dal ghiacciaio, avvenute forse con il tragico evento del 23 agosto, o anche prima. Ciò indica che questi piccoli ghiacciai sotto il Cengalo e il Badile, probabilmente sono freddi, ossia con temperature al disotto dello zero, mentre il 95% dei ghiacciai alpini hanno temperature di zero gradi. In queste condizioni possono formarsi delle sacche di acqua (di fusione o di pioggia) all’interno del ghiacciaio, anche di quello colpito dalla frana del Cengalo. Oltre alla polverizzazione e alla liquefazione del ghiaccio dovuto all’impatto della frana, la presenza di quest’acqua spiega l’immediata formazione del flusso di detriti che ha invaso il fondovalle di Bondo».

La Confederazione è corsa ai ripari. Nell’agosto dell’anno scorso ha infatti pubblicato il «Rapporto sui pericoli naturali in Svizzera». Si descrive la situazione e si illustrano le misure da adottare, da parte della Confederazione, dei Cantoni dei Comuni, ma anche delle istituzioni private e della popolazione. Per esempio, nelle zone minacciate da piene vivono 1,8 milioni di persone e vi sono 1,7 milioni di posti di lavoro e beni materiali per un valore di circa 840 miliardi di franchi. La superficie costruita è aumentata del 23,4% tra il 1985 e il 2009, a causa dello sviluppo urbano. Il rischio di danni è quindi sempre aumentato. «La recrudescenza dei movimenti di terra – si legge nel rapporto – in particolare in luoghi finora risparmiati toccherà zone urbanizzate, strutture turistiche, dighe, infrastrutture stradali e ferroviarie, condotte di gas e linee elettriche nelle Alpi».

Negli ultimi anni gli investimenti in opere di protezione – come è avvenuto a Bondo – sono aumentate in tutta la Svizzera. Un centinaio di punti sensibili sono monitorati costantemente.

Fra questi, come abbiamo visto negli scorsi giorni, in Vallese, a Saas-Grund con il ghiacciaio del Trift. E soprattutto il maggior ghiacciaio svizzero, l’Aletsch è monitorato costantemente. «Essendo di grandi dimensioni – ci dice Giovanni Kappenberger – l’Aletsch si ritira ininterrottamente a partire dalla fine della piccola era glaciale, a metà del 19mo secolo. Il suo tempo di reazione è lungo e la sua lingua, che ogni anno perde sui 10 m di spessore, non reagisce a cambiamenti climatici minori. Mentre i piccoli ghiacciai, come per esempio il Basodino in Ticino, hanno registrato brevi avanzate negli anni 10 e 60-80 del secolo scorso, ma sono destinati a sparire in pochi decenni. Viceversa, al Konkordiaplatz dell’Aletsch, il punto con la maggior profondità di ghiaccio delle Alpi, attualmente ci sono ancora oltre 800 metri di ghiaccio. Lo scioglimento proseguirà anche in quel punto, dove si formerà un lago, ma ci vorrà più di un secolo».

Un fattore importante per contrastare i pericoli naturali, secondo il Consiglio federale, è la cultura del rischio, che va diffusa a tutti i livelli, fra le autorità, ma anche fra la popolazione.

Il futuro porterà un’intensificazione di fenomeni naturali estremi? «L’aumento della temperatura dell’aria significa che nell’atmosfera vi è più energia a disposizione – ci dice Marco Gaia. – Essa porterà inevitabilmente a una modifica di diversi processi dell’atmosfera: secondo le nostre conoscenze attuali in Ticino in media dovrebbero aumentare le ondate di caldo, diminuire i periodi di gelo, le estati divenire leggermente più secche e gli inverni più piovosi. Quelli che sono dei fenomeni che nelle odierne condizioni climatiche avvengono raramente, gli estremi, appunto, tenderanno a presentarsi con maggiore frequenza in futuro. Anche l’ambiente in cui viviamo reagirà al cambio delle condizioni climatiche, costringendoci a confrontarci con situazioni nuove o che oggi avvengono solo raramente».

In Ticino com’è la situazione? «Precipitazioni molto più prolungate, ondate di calore, temporali intensi, – spiega Giorgio Valenti – possono favorire certi tipi di dissesti geologici. Si pensi per esempio alle grandi deformazioni gravitative di versante come quella di Cerentino, di Peccia, o della Val Canaria e a numerose altre che tendono ad accelerare in seguito a precipitazioni prolungate, ai flussi di detrito che si innescano in occasione dei forti temporali, o allo scioglimento del permafrost, più pronunciato quando il caldo perdura per intere settimane. In Ticino non incombono pericoli come la caduta di sassi o crolli di roccia tipici dello scioglimento del ghiaccio, sia esso sotto forma di ghiacciaio o di permafrost, in quanto le zone ghiacciate sono relegate a poche aree in alta montagna (un pericolo può sussistere per alpinisti o escursionisti che frequentano certi itinerari). Per gli altri fenomeni naturali (frane, crolli di roccia, flussi di detrito, valanghe, ecc.) anche il nostro Cantone sarà probabilmente confrontato con un loro aumento. Mi permetto comunque di affermare che, al momento e per piccoli eventi naturali, la malaedilizia e l’edificazione in aree poco propizie potrà generare maggiori danni rispetto a quelli causati dai mutamenti climatici».

Intanto Bondo rimane un paese fantasma, isolato, come se fosse protetto da un cordone sanitario. Personale della polizia e della protezione civile presidia gli accessi al villaggio. «Vietato passare! – intima il giovane della protezione civile che, sotto un gazebo dei samaritani, controlla la strada. – Oggi ci hanno detto che il tempo di fuga è solo di due minuti, perché in alto c’è la nebbia e non si riesce a vedere la montagna».

Ci vorranno almeno un paio di mesi affinché gli abitanti possano rientrare nelle loro case e anni per tornare alla normalità. E in alto, sul Cengalo, ci sono ancora da mezzo a un milione di metri cubi di roccia pericolante.