«Salve, oh Colombo ligure ardito, che il Nuovo Mondo festi palese. A questo nostro convito noi ti invitiamo, gran Genovese». È l’inizio di una ben nota e conviviale canzone triestina, da intonare con qualche bottiglia di Pinot. Il Colombo Cristoforo, oltreché aver scoperto un Nuovo Continente, che supponeva fossero le Indie occidentali, con modalità del tutto accidentali e fortuite, con il favore di una regina, e grazie a tre caravelle, ha fatto conoscere all’Europa tutta una serie di vegetali (prima sconosciuti), che doveva sconvolgere e arricchire l’alimentazione nel Vecchio Continente. Dopo millenni di monotono e spesso miserando mangiare. E chi lo direbbe: pomodori e granoturco, patate e fagioli, peperoni, sono tutti giunti in Europa dopo il fatidico 1492. E per gli estimatori del tabacco, anche la Nicotiana, la sua pianta, è giunta dall’America.
Per ragioni anagrafiche ho avuto la ventura di poter ancora mangiare un’arcaica sorta di pane preparato con la farina ottenuta dalla castagna d’acqua (Trapa natans), un vistoso vegetale galleggiante con le sue artistiche foglie, e i suoi tricuspidati porta-semi, un tempo comune e persino infestante in tutti gli specchi lacustri del Varesotto, del Lago di Muzzano e di Origlio. E, molto più lontano nel profondo Sud italico, nei borghi della selvosa Lucania ricca di querce, potevo gustare una collosa «sbobba»: la primitiva «laganella», zuppa di farro insaporita con qualche pezzo di cotenna. Un cibo base dei popoli italioti montanari: Frentani, Apuli, Dauni, Irpini, Sanniti, Lucani e Bruzii. Stirpi che dovevano essere assoggettate con la conquista romana, e ingentilite grazie alla presenza greca. Tutta gente la quale, tra l’altro, contendeva le ghiande a maiali e cinghiali per completare la dieta con qualche farinaceo anche se amarognolo.
Provate a immaginare la pregiata e decantata cucina mediterranea senza pomodori, senza peperoni più o meno piccanti, senza patate, tutti giunti dalle Americhe, melanzane dall’India, baccalà presente sulle mense soltanto dopo il 1500. Tutti cibi che avrebbero apportato una rivoluzione alimentare in Europa, con la sequela di iniziali ignoranze e diffidenze. Era vivamente sconsigliato mangiare le patate in quanto il tubero esotico proveniva da terre non cristianizzate. Il pomodoro era ritenuto velenoso: era un frutto oppure una verdura? E, in quanto ai fagioli e al baccalà, erano considerati cibi dozzinali da essere lasciati alla fame della povera gente.
In qualche parte è stato scritto che ogni essere umano è anche il risultato genetico di cosa e quanto hanno mangiato i suoi antenati più o meno prossimi. E quali profonde conseguenze ha avuto il cibo nel corso del tempo sulle condizioni sanitarie, sulle vicende sociali, economiche e politiche di queste stirpi che ci hanno preceduto. «Franza o Spagna basta che se magna», dicevano con arguzia gli abitanti della Città Eterna in occasione delle frequenti visite dei Francesi e degli Spagnoli.
La scienza dell’alimentazione, una tappa del cammino conoscitivo, si arricchisce recentemente con la narrazione della storia dell’alimentazione: la storia del mangiare. Essa si basa sulla ricostruzione delle avventure culinarie dei popoli europei e mediterranei, quando il pensiero dominante era la quantità del cibo disponibile, e non tanto la qualità dei suoi componenti. Farinacei e proteine, zuccheri e vitamine, sali minerali: tutto quanto compone oggi giorno un mangiare sano, in passato era fortemente sbilanciato fin dall’avvento dell’agricoltura, in un panorama di eccessi, carenze, assenze (quando era possibile mangiare…).
Attraverso i secoli, e quale conseguenza di concrete motivazioni climatiche, si erano venute a creare vere e proprie «civiltà culinarie», tributarie della dominanza di un alimento rispetto agli altri. Popoli mediterranei (la civiltà dell’ulivo e del frumento), popoli padani (la civiltà del riso sconosciuto prima del 1450), popoli prealpini (la civiltà del castagno) e i popoli montanari (la civiltà delle pecore, delle capre e dei maiali). Pure la «civiltà della birra» si è imposta presso i popoli anglosassoni, quando questi si sono accorti che il clima era cambiato vistosamente, e la coltura della vite non era più possibile dalle loro parti.
In molte circostanze, la coltura della patata in Europa costituì una radicale soluzione al permanente problema della fame. Soprattutto a certe latitudini (Irlanda, Scandinavia) la coltura dei cereali era stentata e aleatoria per ragioni climatiche. Ma la monocoltura incentrata su un solo vegetale può avere drammatiche conseguenze umane ed economiche qualora vengano a crearsi i presupposti climatici per massicci attacchi di funghi patogeni (lo oidio) e di insetti fitofagi.
Alla fine dell’800 una catastrofica e virulenta proliferazione congiunta del fungo e del coleottero dorifora, ebbe come risultato la distruzione di interi raccolti di patate in Irlanda. La conseguente carestia costrinse un buon numero di irlandesi (si calcola oltre un milione) a emigrare negli Stati atlantici del nord America, sotto cieli più benigni. È durante tale periodo che data il loro massiccio insediamento negli USA orientali, con tutta una sequela di mutamenti sociali, ed economici (si ricordi il caso della famiglia Kennedy). Cosa può fare un fungo e un insetto nel decidere le sorti umane!
A seguito delle scoperte dei navigatori spagnoli e portoghesi si sviluppò un notevole e proficuo traffico marittimo verso mete sempre più lontane e impervie: in Asia, in Africa e nelle Americhe, non più spezie e sete. I viaggi di Vasco De Gama, di Pigafetta, di Magellano, e di tanti altri ardimentosi, contribuirono vistosamente all’introduzione in Europa di numerosi vegetali, che dovevano arricchire e modificare la dieta degli europei. Giunsero così in epoca relativamente recente: le melanzane dall’India, i fagiolini dall’Africa tropicale, le lattughe e le carote dall’Asia temperata. Nel contempo vegetali medio-orientali, asiatici e africani variavano le mense dei novelli nord-americani di origine europea: cipolle, aglio, soia dal Giappone e dalla Cina fino in California, i broccoli dal Mediterraneo, i fagiolini grazie agli schiavi africani, prima nella Giamaica, successivamente negli Stati meridionali degli USA dove, con la coltura del cotone, era massicciamente presente la povera manovalanza africana. Ormai in tutto il Mondo si affermava un vero «turismo vegetale», che doveva modificare commerci e abitudini alimentari.
Attualmente è vivamente percepita dall’opinione pubblica la volontà di conoscere l’origine e la qualità di quanto viene ingerito per alimentarsi. Molti sono i motivi di preoccupazione, poiché da parte di autorevoli e disinteressate fonti manca una informazione corretta e obiettiva. Fino a un recente passato operavano sul mercato mondiale migliaia di produttori di sementi. Scopo della loro attività era di proporre prodotti sempre più selezionati (ibridi e cultivar).
Qual è la situazione attuale? Questo immenso mercato di consumatori è dominato attualmente soltanto da cinque multinazionali a livello mondiale, che operano in regime di monopolio, imponendo (fra l’altro) l’acquisto degli Ogm (Organismi geneticamente modificati). Sugli effetti possibili di varia natura, nel campo dell’alimentazione umana e animale, conosciamo ben poco, questo in mancanza di una informazione onesta.
E dopo aver gustato una pizza Margherita, è doveroso rivolgere un pensierino di gratitudine anche al Ligure ardito, a lui e ai suoi pomodori.
Bibliografia
- Tom Standage, Una storia commestibile dell’umanità, Codice edizioni (Torino), 2009, 241 pp.
- Evelyne Bloch-Dano, La favolosa storia delle verdure, add editori (Torino), 2017, 189 pp.