Tra Venezia e il promontorio del Gargano in Puglia (600 km), l’Adriatico non è un mare ma una catinella, profonda mediamente 75 m (eccettuata una depressione di –273 m tra Pescara e la costa dalmata prospiciente). E soltanto 25 m tra Venezia e Trieste. A causa di queste modeste profondità, le acque si riscaldano fino a 28°, e si raffreddano fino a +8°. Queste caratteristiche fisiche dell’Adriatico centro-settentrionale sono all’origine di episodi climatici particolarmente aspri: venti continentali freddi dalla Balcania incontrano acque marittime tiepide: situazione ideale per generare enormi nevicate sull’Appennino, come è avvenuto lo scorso gennaio. «Tempeste di neve da manuale», ha scritto il climatologo e meteorologo Luca Mercalli («La Stampa», 20.01.17). Tempeste e bufere che si sono addensate contro la barriera degli Appennini, dalle Marche al Molise, attraverso l’Abruzzo. Una catena montuosa oltre i 2000 m d’altitudine, culminante sul Gran Sasso d’Italia (2912 m), il cui versante settentrionale era occupato fino pochi anni or sono dal ghiacciaio «il Calderone».
Enormi masse di neve, che non sono una novità per queste regioni, testimoniato anche dalla necessità di opere di protezione per impedire il blocco della circolazione ferroviaria nelle linee di montagna. Quello che è avvenuto recentemente in Abruzzo è stato il sommarsi di coltri nevose (si è parlato fino a 4 m), e di una drammatica serie di scosse telluriche in corso dal 24.8.16, di più o meno grave entità, aggravando la situazione ambientale già precaria per le operazioni di Soccorso alle popolazioni. Per individuare e conoscere l’origine della catastrofe ambientale e umana, è necessario riflettere sulla concomitanza di tre fattori. Quello geografico (la posizione della penisola rispetto all’Adriatico), quello climatico in funzione di questa posizione, e infine quello umano.
L’Appenninia è popolata da diversi millenni e, sebbene si assista attualmente a un progressivo spopolamento, l’uomo è tuttora presente ovunque, fino a 1200 metri d’altitudine, ed esso occupa ancora numerose cittadine, borgate e frazioni sparse. Nel corso di molti secoli, la presenza umana ha plasmato e modificato il territorio, soprattutto distruggendo il bosco per favorire la pastorizia ovina: dai tre agli otto milioni di pecore durante l’epoca d’oro delle transumanze. Come ha ben evidenziato Riccardo Finelli (2014), l’Appennino è una «terra di resistenza» dove l’uomo ha sempre conosciuto condizioni di vita difficili, caparbiamente sopportate nel corso della lunga storia della sua presenza sul territorio.
L’uomo ha fatto molte cose che non doveva fare, creando i presupposti per un diffuso dissesto idro-geologico, in una terra geologicamente giovane e strutturalmente fragile.
Questa diffusa e capillare occupazione delle terre ha reso più precarie e difficoltose le operazioni di soccorso; alle quali hanno collaborato anche i pompieri di Locarno, di Bellinzona e di Chiasso con un encomiabile esempio di solidarietà umana. Particolarmente prezioso l’impiego di mezzi meccanici portati dal Ticino per lo sgombero della neve e per aprire dei varchi nelle strette stradine degli abitati bloccati. E persino con la presenza di due volontarie di Locarno, il cui compito è stato di occuparsi degli animali domestici e dei cani.
Nel 1992 la Regione Abruzzo decretava la lungimirante istituzione di una Commissione Valanghe in ogni comune montano sottoposto a potenziali pericoli di questa natura. Nel territorio del comune di Farindola (600 m, alle falde del Gran Sasso d’Italia) era stato costruito abusivamente (in regime di sanatoria edilizia per assecondare gli interessi politici ed economici locali)un complesso alberghiero 4 stelle in località Rigopiano (1200 m). Ebbene, la Commissione Valanghe di Farindola non si riuniva dal 2005 (!). La catastrofe originata da una valanga di imponenti proporzioni (400mila tonnellate di neve e di detriti, l’equivalente di 4mila TIR a pieno carico) e che ha causato 29 vittime, era stata prevista dai tecnici della Protezione Civile, ma «Nessuno si mosse per l’allerta neve» («La Stampa» del 31.1.17). Così pure era stato previsto che, con un repentino aumento della temperatura in quota, sarebbe conseguita una drastica diminuzione della stabilità del manto nevoso per mancanza di un sufficiente ancoraggio al suolo.
Secondo i sismologi del Centro nazionale Terremoti «forse non sapremo mai se la serie di sismi – 5 scosse di magnitudine Richter 5 entro 24 ore – e valanga a Rigopiano siano collegati». Ma di tutt’altro parere sono gli specialisti di valanghe (un altro caso di incomunicabilità tra studiosi delle scienze della terra: sismologia e nivologia), i quali sanno da molto tempo (Fraser 1970) che, qualora un pendio innevato si trovi in precarie situazioni di equilibrio, basta il rumore di voci umane per scatenare onde sonore in grado di provocare il fenomeno «valanga». Questa sensibilità è spesso utilizzata quando si decida di provocare «valanghe artificiali» con esplosivi a salve per la protezione di abitazioni, vie di comunicazione e piste da sci.
Per concludere, nel caso di Rigopiano vi è stato uno stretto rapporto di cause ed effetti tra le scosse telluriche e lo scatenamento della valanga.