«L’Alzheimer è entrato nella vita di Adriana nel 2004, quando aveva 65 anni. Per otto anni lei e Franco (ndr: il marito) hanno vissuto in casa da soli». È la storia vera di Franco e Adriana, malata di Alzheimer, raccontata dal delicato sguardo dello scrittore Mario Calabresi nel suo ultimo libro Una volta sola (ed. Mondadori), nel quale egli descrive il ricovero della donna in una struttura protetta, dove «ha ripreso a camminare ma ha perso la parola», e i dieci anni in cui il marito «ha imparato a capirla dai gesti, dalle espressioni, dal comportamento: sa che ama stare all’aperto, così ha trovato una struttura con un grande giardino». Ed è lì che Franco si presenta ogni mattina e va via la sera, solo dopo che lei si è addormentata: «La sua terapia era fatta di passeggiate e musica».
Storie come queste sono sempre più comuni, complice l’invecchiamento globale della popolazione. «Sempre più spesso si parla di demenza e declino cognitivo e delle possibili strategie per combatterlo o almeno ritardarlo», la conferma viene dal direttore medico e scientifico del Neurocentro della Svizzera italiana professor Alain Kaelin che poi apre uno spiraglio sui nuovi orizzonti delle conoscenze scientifiche votate a contrastare o, almeno, rallentare questi processi di decadimento intellettuale. «Oggi sappiamo che il decadimento intellettuale può essere influenzato dall’attività fisica come molla per un insieme di fattori neuroprotettivi cerebrali e antiinfiammatori». Un meccanismo che unisce attività fisica aerobica e anaerobica alla protezione biologica del cervello e del sistema immunitario, suggellando così una consapevolezza prima solo empirica.
È comprensibile l’entusiasmo del professor Kaelin, giustificato dalla misura del problema: entro il 2050 si stima che nel mondo la popolazione aumenterà del 22 per cento (fino a 1,25 miliardi), con una prevalenza stimata di demenza pari a 135 milioni di persone: «Negli ultimi anni sono stati fatti molti passi avanti nella comprensione della complessità biologica alla base del concetto di demenza, e si è scoperto che, oltre a fattori neurobiologici, la propensione verso malattie come Parkinson o Alzheimer è influenzata anche da molteplici fattori di rischio ambientali, non genetici, in grado di condizionare l’esordio e lo sviluppo della patologia».
Fra questi, il neurologo parla di diabete mellito, ipertensione arteriosa, obesità, depressione, fumo, come pure dell’inattività fisica: «Negli ultimi anni sono sempre più significativi i dati scientifici a sostegno di un ruolo terapeutico-preventivo giocato da strategie di prevenzione-modulazione dell’invecchiamento cerebrale patologico correlato allo sviluppo di demenza: pensiamo ad alimentazione, stimolazione cognitiva e attività fisica».
Secondo Kaelin, fra questi tre fattori emerge proprio una moderata e costante attività fisica: «Insieme a tutte quelle attività leggere come fare i cruciverba, giochi di logica o suonare uno strumento, dobbiamo considerare seriamente il ballo e l’esercizio fisico che, oramai è scientificamente provato, influenza i meccanismi biologici neuroprotettivi e antiinfiammatori cerebrali, con evidenti benefici su aspetti difficilmente misurabili, come un giovamento sulle emozioni (tono dell’umore), che si uniscono a quelli più generali».
L’esercizio fisico può contribuire a evitare il manifestarsi delle malattie cognitive, o per lo meno rallentarne il decorso: «Ad esempio, ora sappiamo che i malati di Parkinson possono trarre beneficio ballando il tango, così come aiuta un allenamento aerobico regolare di modesta intensità per mezzo di un’attività fisica sempre controllata e constante. Infatti, è dimostrato che muoversi quotidianamente da dieci minuti a mezz’ora (esercizi di forza e aerobici) produce questi benefici senza rischi, stimola il cervello e fornisce una maggiore resilienza nei confronti dell’eventuale processo neuropatologico».
Un concetto declinato anche nella riabilitazione neurologica, afferma Paolo Rossi, neurologo e co-primario alla Clinica di riabilitazione Hildebrand di Brissago: «Insieme alla stimolazione cognitiva, l’attività fisica agisce in modo trasversale nell’approccio trans-patologico, ed è potenzialmente valida e virtualmente efficace per tutte le cause di decadimento cognitivo, così come pure per il percorso di riabilitazione neurologica e neuromotoria dopo eventi patologici neurocerebrali». Si parla di un percorso che, per definizione dell’OMS, «vuole riportare la persona nel suo ambiente di vita, restituendole il massimo delle sue competenze, sempre considerando i deficit motori e quelli limitanti delle attività quotidiane che, purtroppo, possono persistere dopo la patologia». In questo caso, parliamo di tutte le persone, a qualsiasi età, che sono colpite da un evento neurologico, «per le quali bisogna calibrare l’intervento riabilitativo in funzione delle loro caratteristiche individuali (età, scolarità, ambiente di vita, professione, sesso e via dicendo)».
Nella valutazione rientra anche lo sport che può essere usato come un «mezzo» o un «fine», racconta Rossi: «L’aspetto motivazionale stimola il paziente scarsamente coinvolto, con una depressione reattiva all’evento patologico subito o con deficit cognitivi importanti legati alla malattia: introdurre piccoli esercizi fatti di gesti della sua attività sportiva prediletta facilita il percorso fisioterapico di recupero, spesso con risultati molto positivi. Inoltre, individuare un’attività sportiva cara al paziente fa sì che egli possa poi riprenderla con il tempo».
Lo specialista porta ad esempio una pianista che ha subito una lesione cerebrale da ictus, con serie ripercussioni alla mano destra: «Un problema serio perché comportava limitazioni nel suo lavoro; perciò il nostro compito era quello di agire in modo mirato. La lesione aveva determinato pure un disturbo della capacità di pianificazione del movimento e non solo motorio. Allora, abbiamo optato per esercizi su una tastiera di pianoforte, facendole suonare brani musicali tratti dalle sonate di Chopin e da brani di Beethoven, per il fatto che ciascuno dei due compositori ha caratteristiche specifiche che stimolano aree cerebrali diverse».
Tutti esercizi inseriti nell’ambito del programma riabilitativo che, riferisce il dottor Rossi, hanno prodotto un ottimo risultato, in una presa a carico personalizzata: «Questa è un’imprescindibile peculiarità della medicina neuroriabilitativa, anche motoria, nella quale si affronta la gestione dell’individuo in quanto tale, che oggi permette un intervento molto più ampio». Il movimento non solo come Mens sana in corpore sano: «Un’arte, quella del movimento, diventata anche un po’ scienza, scienza della riabilitazione».