«Prima di domandarci se gli animali posseggano o meno un certo tipo di intelligenza, specialmente quella che tanto apprezziamo in noi stessi, dobbiamo superare la nostra resistenza interna anche solo a considerare quest’evenienza». Il pensiero del primatologo olandese Frans de Waal riassume i toni delle relazioni degli esperti intervenuti a Bologna, il 29 e 30 ottobre scorso, nell’ambito delle Giornate Internazionali sulla Relazione Uomo Animale organizzate dalla Scuola internazionale uomo animale (Siua, scuola fondata dallo zooantropologo Roberto Marchesini).
Il tema della mente «non umana» ha sempre affascinato scienziati e filosofi. A partire da René Descartes, che aveva delimitato nettamente i confini fra uomo e animale, sancendo per quest’ultimo il solo dominio delle cose misurabili (res extensa), a differenza dell’essere umano a cui, sempre secondo Descartes, spettava il privilegio del «cogito». Di avviso diametralmente contrario fu Charles Darwin, nel suo libro L’espressione delle emozioni nell’uomo e nell’animale pubblicato nel 1872. Solo a partire dagli anni Settanta si è ricominciato a parlare di «mente animale», grazie alla nascita delle scienze cognitive e la conseguente formulazione di ipotesi sui processi elaborativi. Tutto questo grazie all’etologo Donald Griffin.
In seguito, la primatologia degli ultimi trent’anni ha contribuito parecchio nello studio della mente animale, in particolare per quanto attiene alle aree della consapevolezza, della comunicazione, della messa a punto di adeguati strumenti e del loro uso. Si è dunque iniziato a comprendere che, come per i sensi, non è corretto approfondire la cognizione animale usando l’essere umano come termine di paragone, perché ogni specie ha sviluppato un «profilo performativo peculiare»: bisogna dunque pensare alla mente non umana in modo plurale in quanto le diverse intelligenze delle varie specie non sono sovrapponibili, non essendo state plasmate dagli stessi selettori.
Parecchi gli esempi portati a supporto di quanto sopra. Il cane, per citarne uno noto, è membro di una «specie virtuosa» nell’intelligenza sociale in quanto «capace di muoversi all’interno di prefigurazioni relazionali; poi vi sono specie più portate alla soluzione di problemi (con «intelligenza enigmistica») quali il gatto. Le specie antropomorfe sono portate all’astrazione concettuale, mentre i roditori fanno parte delle specie capaci di costruire mappe cognitive dell’ambiente. E per finire, le nocciolaie sono specie in grado di ricordare un enorme numero di riferimenti territoriali.
Ciò dimostra che la mente animale è plurale e, secondo i relatori, ancora oggi un continente per lo più inesplorato. Nel Novecento l’attribuzione di capacità cognitive ed emotive agli animali era considerata assurda e ascientifica, per cui gli scienziati vedevano gli animali come automi stimolo-risposta, dotati geneticamente di «istinti utili». La rivalutazione di alcune specie è arrivata in seguito e risulta essere relativamente recente. Lo dimostra lo scrittore e saggista statunitense Jonathan Safran Foer nel libro Se niente importa, dove scrive: «Nel 1992 solo 72 articoli parlavano dell’apprendimento dei pesci. Dieci anni dopo ce n’erano 500 e oggi si arriva a 640».
Grazie a questa apertura di diversi pensatori e scienziati, oggi sappiamo ad esempio che cornacchie e polipi riconoscono le facce umane, i pesci sanno passare le informazioni apprese da una generazione all’altra e le scimmie sono in grado di imparare dagli errori dei propri simili. Durante la due giorni, molti sono stati gli interventi degni di nota, a cominciare dall’introduzione al convegno di Roberto Marchesini: «Viviamo in un’epoca di costante distruzione del mondo vivente, dove uno dei problemi principali è l’antropocentrismo». Secondo lo zooantropologo, in questa società basata sull’individualismo diventa fondamentale riscoprire il rapporto con gli altri, mettendo in discussione il nostro egocentrismo personale e di specie.
«Pensare l’uomo come coscienza separata dallo spazio e dal mondo è un’astrazione assoluta», ha affermato il professore di filosofia teoretica dell’Università di Catania Alberto Giovanni Biuso, concludendo: «L’umanità non è la controparte dell’animalità, ne rappresenta una specificità, dunque non ha senso chiedersi quale sia l’animale più intelligente, poiché basiamo questa domanda su un unico modello di intelligenza». Secondo Biuso: «Abbiamo paura dell’animale che noi stessi siamo, una paura atavica, basata sulla necessità di marcare il territorio e stabilire una gerarchia, differenziandoci dalle altre specie». La sfida sta dunque nel «superare questo concetto di centralità, perché ci troviamo in un labirinto dove non c’è nessun centro».
Dal canto suo, il filosofo ed etologo Dominique Lestel (forte della sua esperienza maturata nelle parecchie indagini sulla relazione tra umani e animali) ha presentato al pubblico una nuova corrente di pensiero, lo zoo-futurismo: «Con questo termine si intende l’animalizzazione dell’essere umano: è una posizione al contempo filosofica e artistica in corso di elaborazione, nella quale si tratta di riattivare la nostra animalità, esplorando le capacità che abbiamo ricevuto dalla nostra storia filogenetica e che abbiamo perso o non abbiamo avuto l’occasione di sperimentare fino in fondo in quanto Homo Sapiens».
Il Simposio ha ruotato per intero attorno al concetto di accettazione dell’intelligenza animale. Resta da capire se, ora, siamo pronti ad aprirci alle altre intelligenze e a percorrere un territorio ancora «largamente inesplorato», quello delle menti non umane.