Mantenere senza musealizzare

La Fondazione Valle Bavona festeggia i trent’anni di attività a favore di natura, cultura e storia
/ 21.09.2020
di Valentina Grignoli

Quando si varcano le soglie della Val Bavona sembra di entrare in un mondo incantato. La Valle è un luogo incontaminato dove il tempo sembra non essere passato, nonostante una strada la percorra da Bignasco e Cavergno (le porte a sud) fin su a San Carlo. La cornice verde, i grandi massi, i muri a secco, il fiume che scorre tra pozze e cascate, e poi gli altissimi dirupi contribuiscono al fascino che emana. Insomma un locus amoenus mirabilmente preservato che tra mistero e storia fa sentire ancora oggi il turista di passaggio un privilegiato. Un museo paesaggistico a cielo aperto? Forse, ma non solo, perché la Val Bavona è ancora abitata, e quindi oltre al luogo e alle tradizioni va preservata anche la qualità di vita di chi ci vive oggi.

Si impegna per tutto questo la Fondazione Valle Bavona, che da trent’anni ha come vocazione e compito la salvaguardia e protezione della valle in tutte le sue componenti.

Nicoletta Dutly Bondietti, collaboratrice, ci ha accompagnato in un viaggio attraverso la storia di questa splendida valle, iniziando proprio dalla missione della Fondazione.
«Nel 1983 la Valle Bavona è stata inserita nell’inventario federale dei paesaggi, siti e monumenti naturali d’importanza nazionale» ci racconta. Questo significa che i contenuti della Valle meritavano di essere conservati intatti e rispettati nel suo insieme, ed era la Confederazione a salvaguardarne le condizioni, d’intesa con il Cantone e in collaborazione con le autorità locali. Nel 1985 è stato poi approvato dal Cantone il Piano Regolatore (PRVB), strumento adeguato per la salvaguardia dei valori naturalistici e paesaggistici della valle e allo stesso tempo alla loro promozione nell’interesse della popolazione indigena. Il PR prevedeva l’istituzione di una Fondazione (nata poi nel 1990) e di un gruppo di lavoro ad hoc (oggi Gruppo operativo) che le garantisse, insieme agli allora comuni di Bignasco e Cavergno, la consulenza per la gestione esecutiva delle norme.

«La valle necessitava di un riguardo speciale, perché si era conservata in modo molto genuino. Era necessario farne uno studio approfondito, un piano regolatore molto particolareggiato, unico. Il gruppo operativo si ritrova oggi una volta al mese per affiancare il comune di Cevio nell’affrontare tutto quanto avviene in Val Bavona, come le domande di costruzione, la consulenza ai privati, o situazioni particolari quali ad esempio l’intervento dell’altalena a Foroglio».

Ma la Fondazione non ha solo a cuore la parte antropica, ci racconta Nicoletta: «anche quella naturalistica. Se prima si dava tanta importanza agli interventi edilizi ora è altrettanto fondamentale tenere d’occhio la protezione e la valorizzazione della biodiversità. Un esempio significativo è il ripristino delle selve castanili, che rappresenta la relazione per eccellenza tra elemento naturale e uomo».

E per quanto riguarda il patrimonio immateriale? «Pubblichiamo alcuni volumi e quaderni dedicati alla memoria culturale, l’anno scorso poi abbiamo ricordato Plinio Martini a 40 anni dalla morte. Riportiamo in vita le tradizioni a scopo divulgativo, per esempio attraverso il laboratorio per le scuole sul mondo del castagno, con la cottura della “fiàscia” (pane di castagne) nello “splüi” dal forno. Certo non è la pagnottona di una volta che doveva durare un mese, lo si fa a scopo didattico».

Qual è la sfida principale di una fondazione come la vostra? «Mantenere senza musealizzare. Una divulgazione non prevista solo per i turisti ma anche per la gente del posto, per far capire che questa è stata una valle povera, ma di grande valore».

Come ha fatto a mantenersi così intatta la Val Bavona? «Finché non sono iniziati i lavori idroelettrici (Ofima) negli anni 60 a Robiei non c’era la strada carrozzabile da Cavergno. Prima di allora per costruire si usava quello che si aveva sul posto, pietre e legna. C’era sì il trenino della Valmaggina (fino al 1964) che arrivava a Bignasco, poi tutto andava portato a spalle. Quando sono iniziati i lavori alla centrale idroelettrica, paradossalmente nelle Terre non hanno voluto l’elettricità. Ancora oggi tutte le Terre da Mondada a Sonlerto non ce l’hanno. Solo San Carlo (che, come Robiei, si trova su territorio di Bignasco). Un’altra sfida è stata l’avvento del pannello solare: come fare per renderlo estetico? Sono state trovate soluzioni in modo da nasconderli il meglio possibile. La strada e l’afflusso di turisti hanno cambiato la conformazione della Valle. Ma la popolazione ha sempre voluto mantenere quello che aveva».

Come Fondazione supportate anche gli anziani che hanno visto cambiare il mondo, la valle? «Il libro Terre di Val Bavona porta testimonianze molto importanti per ogni Terra. Poi da qualche anno abbiamo il Totem RSI Alta Valle Maggia, e regolarmente proponiamo pomeriggi o serate, anche in Casa Anziani a Cevio. Si cerca di fare in modo che la gente racconti ancora quello che si ricorda».

Quest’anno ricorrono i 30 anni dalla nascita della Fondazione, filo conduttore della ricorrenza è «Uno spettacolo di paesaggio – Trent’anni a favore di natura, cultura e storia». Purtroppo molti eventi sono slittati alla prossima primavera. Un’iniziativa però avvenuta è la passeggiata da San Carlo a Bignasco, lungo il sentiero della transumanza. «È il percorso che facevano le persone. Si passava l’inverno a Cavergno o Bignasco, poi già a febbraio si spostavano le capre in valle, andando giornalmente a vederle. C’era quindi un sentiero di fondovalle percorso continuamente, si entrava con la farina per la polenta e si usciva col formaggio. I sentieri proseguivano poi verso i monti e da giugno a inizio settembre si saliva da lì agli alpi, per poi ridiscendere e fare il percorso contrario, tornando in paese a inizio dicembre. Per questo viene chiamato il sentiero della transumanza, lungo il quale passavano continuamente persone e animali. Poche mucche e tante capre, per via della conformazione del paesaggio molto ripido e scosceso, pieno di massi. Ora questo sentiero è stato ripristinato e corretto in certi punti, verso quegli elementi antropici molto particolari come gli splüi, i prati pensili, o oggetti particolari da vedere, come le fornaci».

Popolazione che cambia, una società che passa dalla sussistenza al lavoro nel settore primario. Poi i lavori nell’azienda idroelettrica, nelle cave. «Una parte della popolazione ha mantenuto lo stretto legame con la campagna, con il lavoro del contadino, che però oggi è sempre più raro». Anche il territorio evolve: «Ora c’è tanto bosco, i prati sono stati riassorbiti. Il fondovalle è ancora bello perché la Fondazione si impegna a mantenere gli spazi aperti. Se li lasciamo andare tutto si racchiude e si perdono un’infinità di informazioni, culturali e architettoniche, ma anche il patrimonio naturalistico e l’equilibrio della natura. Come Fondazione facciamo capo a contadini e privati, e dove non arrivano loro promuoviamo campi di volontariato internazionali per gestire il territorio».

Mi ha parlato spesso di splüi, Nicoletta Dutly Bondietti, di cosa si tratta esattamente? «Costruzioni sotto le rocce! Ci sono diverse tipologie: le cantine, scavate sotto queste enormi rocce, le stalle, piccole case, luoghi per tessere, il forno... La presenza di questi massi è talmente imponente che l’uomo ha dovuto utilizzarli meglio che poteva. Sopra ci hanno portato la terra e la si coltivava». Insomma, una delle caratteristiche tra le più imponenti di questa Valle che non cessa di stupire.