Mamme, fatelo per voi!

Il caffè delle mamme – Il nuovo saggio della psicoterapeuta Stefania Andreoli invita le donne a essere madri senza «la zavorra del mito del sacrificio»
/ 16.05.2022
di Simona Ravizza

Mamme, visto che maggio è il mese della nostra Festa, proviamo almeno a rifletterci su, come regalo a noi stesse? Il tema è se è possibile cambiare la nostra prospettiva di vita. Con il saggio Lo faccio per me appena arrivato in libreria (ed. Bur-Rizzoli, 2022), la psicoterapeuta Stefania Andreoli, 42 anni e due figlie di 10 e 7 anni, Agnese e Delfina, si rivolge a noi: «disorientate, equilibriste, creative, volenterose, sull’orlo di una crisi di nervi, ma tutte accomunate dall’ambizione di compiere le scelte più giuste per i figli». Lo fa per spingerci a «essere madri spogliate dalla zavorra del mito del sacrificio»: per Andreoli la bussola che ci deve orientare nelle decisioni di vita quotidiana non può essere più (o non solo) «lo faccio per mio figlio», ma anche e soprattutto quel «lo faccio per me» che dà il titolo al libro al quinto posto nella top dei più venduti in Italia. A Il caffè delle mamme s’impone l’interrogativo: l’invito è realistico o semplice utopia? Andreoli confessa senza falsa modestia (e con il rischio di risultare urticante) che lei ha sempre creduto fortissimamente di potere avere tutto: famiglia, carriera, vita. «E siccome non amo non avere ragione – scrive – poi ho fatto in modo che potessi ottenerlo». Per dimostrarlo ci consegna squarci di vita vissuta: «Ho scritto il libro con il computer appoggiato sul bracciolo del divano, con un occhio ai compiti delle vacanze di Natale e l’altro alle lenzuola da cambiare, mentre mio marito cucinava per tutti e seguiva la ricerca di storia di Agnese, più laboriosa dell’analisi grammaticale con la quale l’ho aiutata io».

A Il caffè delle mamme ben sappiamo che ci sono diversi tipi di rinunce. Alcune radicali come quella di smettere di lavorare una volta diventate mamme, altre meno eclatanti ma forse proprio per questo più subdole: restare un passo indietro nella carriera per essere libere di non avere riunioni all’uscita di scuola dei figli; trascurare interessi, amicizie e il rapporto di coppia; sentirsi in colpa se sottraiamo tempo alla famiglia. Spesso è la vita che ci porta a prendere una direzione piuttosto che l’altra: ci condizionano l’avere più o meno aiuti intorno (un conto è avere i nonni che si possono occupare dei bambini, un altro dovere pagare una baby sitter che magari costa come il nostro stipendio); il modello di famiglia che abbiamo (essere single o separate è senza dubbio più difficile che avere un nucleo familiare solido, poco importa poi se sia tradizionale o ricostruito con un secondo matrimonio); la passione per il lavoro che facciamo (entrare in ufficio per realizzarsi è ben diverso rispetto a un mestiere che non ci dà soddisfazione); la necessità di avere uno stipendio o poterne fare a meno; essere libere professioniste o dovere timbrare un cartellino. Insomma, la complessità delle situazioni è tale da rendere impossibile avere una ricetta magica che ci dica quel che è giusto o sbagliato. Ma la nostra convinzione è che ogni strada intrapresa sia legittima purché sia frutto di una scelta consapevole. Quello da evitare è di ritrovarsi a vivere in una gabbia per ragioni storiche, culturali e legate ai falsi miti del sacrificio. Insomma, a dire addio a una parte di noi. È su questo punto che il saggio Lo faccio per me può offrirci degli spunti di riflessione utili.

Lo fa in un passaggio in cui noi tutte mamme de Il caffè ci siamo immedesimate anche se fino a un minuto prima ci consideravamo donne fortunate e realizzate. Scrive Andreoli: «Eredi di un’educazione dopotutto gretta e prescrittiva che ha iniettato sottopelle il dogma che si debba rispondere a un principio del dovere, molte trovano quasi impensabile, dopo essere state in ufficio oltre l’orario scolastico, rimandare ulteriormente il rientro a casa. Alcune ragioni le ammettono più di altre, invero. Fermarsi a fare la spesa, sì. I colloqui con gli insegnanti, sì. Un salto dai genitori che vivono lungo la strada per un saluto e sincerarsi che vada tutto bene, sì. La camicia da ritirare in tintoria prima che chiuda, sì. Due parole fuori orario con i colleghi e uno spritz, mmm. Il cambio smalto, mmm. Un’ora di zumba, mmm. Entrare a provare quel top color crema per decidere se smettere di pensarci per sempre, mmm. Un giro in libreria, dove oltretutto il reparto poesia è al piano di sotto dove non prende il cellulare, mmm».

Ecco Andreoli ci invita a fare un passo in avanti banale, ma allo stesso tempo rivoluzionario: essere capaci di ascoltare anche i nostri bisogni quali che siano e senza temere il giudizio di chi ci vuole sempre dedite a tutti tranne che a noi stesse. Incredibilmente da ciò trarranno vantaggio anche i nostri figli per almeno tre motivi. Uno: «Una madre votata alla vita del figlio gli rappresenta come adulta un futuro nel quale diventare grandi equivale in buona sostanza a fare solo grandi sacrifici, a immolarsi sull’altare delle prescrizioni dimenticandosi di essere anche titolari del diritto al godimento e a sbagliare». Così crescere sembra una fregatura! Due: liberiamo i nostri figli dal peso di averci condizionato irrimediabilmente la vita. Tre: «Per essere la madre del figlio o della figlia senza volere per lui o per lei quello che loro per se stessi non vogliono, bisogna disporre di una vita propria e di una luce non riflessa da quella emanata dall’esistenza del figlio». Solo in questo modo i nostri figli potranno davvero conoscere l’amore incondizionato che permetterà loro di fare giri del mondo sapendo di avere una base sicura dove tornare.

Per Andreoli la spinta rivoluzionaria è tornare a casa perché lo si desidera, felici del ricongiungimento con il bambino perché in primis felici di sé e soddisfatte a sufficienza della giornata. E il tutto funziona decisamente meglio se a casa sappiamo che ci aspetta o arriverà anche chi amiamo: «Il personaggio di Francesca ne I ponti di Madison County, interpretato dalla sempre formidabile Meryl Streep, è forse tra i caratteri cinematografici che ho più detestato – ammette Andreoli –. Quello di una donna che si innamora perdutamente di un uomo, ma ha un marito, due figli adolescenti, delle compaesane pettegole e una vita in mezzo al nulla dell’Iowa che la fa decidere di restare al suo posto di moglie e madre, a fare la cosiddetta “cosa giusta” pensando per tutta la vita al suo grande amore, che non è quello con cui divide il letto, e immolandosi in nome del sacrificio di soffrire pur di non far soffrire la sua famiglia».

A Il caffè delle mamme, da sempre convinto che sia sacrosanto non abdicare alla propria vita in funzione dei figli (neppure da casalinghe), resta però una consapevolezza: volere tutto, cercare di incastrare magicamente soddisfazione personale, vita di coppia e crescita serena dei figli (meglio se anche felice), è in ogni caso frutto di una fatica quotidiana. Girala e rigirala sempre qui finiamo: nella fatica quotidiana del vivere. Ma, allora, è tutta un’utopia? No, se non si tratta di sacrifici, ma di salti mortali dettati dall’amore.