La COP (Conferenza delle Parti) cominciò con la famosa Conferenza di Rio de Janeiro del 1992. «Nelle tue mani» proclamava il motto della Conferenza, alludendo alla responsabilità individuale e collettiva nei confronti del Pianeta e al potere di intervenire, se si ha la volontà di farlo. Quindi è da almeno trent’anni che conosciamo i problemi della Terra, legati alle emissioni nocive per l’atmosfera e ai cambiamenti climatici.
Milioni, se non miliardi, di persone in tutto il mondo soffrono già gli effetti del pianeta che si riscalda velocemente: tra violente inondazioni e siccità
L’obiettivo finale della Conferenza di quest’anno, la COP 27, è duplice e forse controverso. I paesi industrializzati, i ricchi per intenderci, che hanno agito finora in maniera insufficiente per risolvere i problemi e raggiungere gli obiettivi più volte enunciati, vorrebbero aiutare le nazioni in via di sviluppo, i cosiddetti poveri, a ridurre ed eliminare a poco a poco l’uso dei combustibili fossili per passare decisamente alle energie rinnovabili. Per contro i Paesi in via di sviluppo chiedono ai ricchi un impegno finanziario vincolante a loro favore per affrontare da subito il cambiamento climatico che li danneggia. Due obiettivi che, tradotti in politichese, non sono la stessa cosa.
Oltre alla mitigazione, cioè alla riduzione dei famosi gas a effetto serra (CO2 in primis) che danneggiano la nostra atmosfera e ci promettono un futuro sempre più problematico con l’innalzamento delle temperature, dobbiamo ormai anche parlare di adattamento al nuovo clima. L’adattamento è il modo col quale la comunità e le nazioni si adeguano alle nuove realtà che alterano la nostra vita con i cambiamenti climatici.
Milioni, se non miliardi, di persone in tutto il mondo stanno soffrendo gli effetti di un pianeta che si riscalda rapidamente. Crescono gli eventi climatici estremi: lo testimoniano le recenti inondazioni in Nigeria, le disastrose alluvioni in Pakistan, gli uragani violenti sugli Stati Uniti, le ondate di calore da record in Europa, la siccità prolungata in Cina e un po’ in tutto il mondo. I paesi ricchi possono lenirne le conseguenze senza compromettere drasticamente la propria qualità di vita, i paesi poveri non ce la fanno.
Sono soprattutto le Organizzazioni non governative (Ong), abituate a operare sul posto, a spingere perché si sostenga l’adattamento. Alla COP 27 era presente in forze Conservation International (C.I.) che è attiva dal 1987. Questa Ong si adopera in più di settanta Paesi nella protezione di oltre sei milioni di chilometri quadrati di terre e mari, contando su migliaia di persone tra dipendenti, ricercatori e partner sparsi in tutto il mondo.
Alla Conferenza ha presentato un suo approfondito studio nel quale, dati alla mano, sottolinea la gravità del problema adattamento e suggerisce interventi urgenti. Si afferma che il cambiamento climatico è diventato la più grande minaccia per la salute che l’umanità debba affrontare, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, dove già adesso le persone più vulnerabili del mondo stanno lottando per sopravvivere. Tra gli autori che hanno guidato lo studio c’è lo svizzero Giacomo Fedele, dottore in Scienze ambientali ed esperto dei cambiamenti climatici, che porta tra l’altro l’esempio dei tropici, dove 1,2 miliardi di persone sono fortemente dipendenti dalla natura per la loro vita quotidiana. Si calcola che molte di queste comunità siano le meno responsabili del cambiamento climatico sulla Terra, ma ne affrontino i rischi maggiori. Ciò succede proprio perché dipendono in larghissima misura dalle risorse naturali del loro habitat: per i mezzi di sussistenza, per il materiale col quale si fanno le abitazioni e per altri indispensabili bisogni di base.
A mano a mano che il cambiamento climatico degrada la natura, queste povere comunità hanno sempre meno risorse a disposizione. Il riscaldamento globale è un fenomeno mondiale, ma i suoi effetti non si manifestano in modo uniforme in tutti i Paesi e tra le diverse comunità. Un esempio emblematico si può ritrovare anche nelle nazioni insulari dell’Oceano Pacifico, come Palau o le Fiji, che sono collettivamente responsabili di meno dell’1% delle emissioni globali di CO2 ma che subiscono già alcuni degli impatti più gravi del cambiamento climatico. Il riscaldamento dell’Oceano ha comportato infatti la deviazione delle rotte dei tonni al di fuori della giurisdizione di queste isole. Di conseguenza i pescatori hanno visto un forte calo delle loro catture di tonno, con crescenti difficoltà esistenziali e per il commercio.
Secondo un’altra ricerca di C.I., che usa modelli di previsione alla luce dei dati attuali, entro il 2050 almeno una decina di Stati insulari del Pacifico, tra Palau e Kiribati, vedranno ridotte le rendite della pesca del 20%, con una perdita annuale di circa 140 milioni di dollari. Da notare che nessuna delle nazioni emergenti sembra lamentarsi dei cambiamenti climatici, ma che tutte cercano semplicemente di adattarsi. Per far questo chiedono a chi può i mezzi finanziari per farlo. I modi per adattarsi ai forti impatti del cambiamento del clima variano in base alle condizioni geografiche, socioeconomiche, culturali e politiche, quindi non può esistere un approccio univoco, che vada bene per tutto.
Alcune correzioni necessarie implicheranno la creazione di nuove infrastrutture, come nuove dighe o case rialzate per aiutare le aree soggette a inondazioni, oppure lo sviluppo di nuove tecnologie, quali i sistemi di allarme rapido che avvertono dell’arrivo di un ciclone, permettendo una tempestiva evacuazione. Ne ha parlato il segretario generale dell’ONU Antonio Guterres nella prima giornata della COP 27, ricordando un progetto dell’ONU di «Primo allarme per tutti» che può estendersi per segnalare tempestivamente anche altri fenomeni naturali oltre alle tempeste, come l’arrivo di ondate di calore, alluvioni o siccità. I Paesi che hanno già sviluppato e applicato questo tipo di sistema testimoniano di aver limitato i danni e salvato vite umane.
Petteri Talaas, segretario dell’Organizzazione meteorologica mondiale che è coinvolta nell’operazione, annota che un avvertimento giunto 24 ore prima dell’evento catastrofico può ridurre i danni del 30%. Un altro modo per fronteggiare con l’adattamento le conseguenze del mutato impatto climatico è, per esempio, la piantagione di colture resistenti alla siccità. Molte comunità stanno usando la natura in modo sostenibile e vanno aiutate in questo senso, come è capitato nelle Filippine con le mangrovie. Di questo e altro parleremo in successivi articoli.