Passata la fase più critica della pandemia, non c’è stata trasmissione televisiva o radiofonica, non c’è stato quotidiano – soprattutto nei paesi europei dove la pandemia ha colpito più duramente – che non abbia offerto spazio a riflessioni di architetti, economisti e sociologi su come deve essere ripensata la città dopo il lockdown. L’obbligo doveroso del «distanziamento sociale» ha modificato profondamente il nostro stile di vita, imponendo l’urgenza di prospettare le misure necessarie ad evitare o a ridurre la drammaticità di altri simili eventi che, a detta degli esperti, la crescente globalizzazione delle comunicazioni favorirà.
Gli insediamenti devono essere riorganizzati mettendo al primo posto il tema della salute degli abitanti, le città devono diventare più verdi e più lente. Un’infinità di formule e scenari, più o meno suggestivi, è stata rappresentata: dalla città come insieme di piccoli borghi dotati ognuno dei servizi essenziali per la salute, alla massima estensione della mobilità dolce e alternativa, alle misure più diverse per evitare ogni forma di promiscuità. Scenari che erano presenti tra gli esperti anche prima della pandemia, ma che oggi la paura ha dotato di una diffusione popolare prima impensabile.
Un fenomeno, quindi, che inciderà – non sappiamo in quale misura – sulla cultura politica, sulle visioni e sui programmi di chi è impegnato nelle istituzioni che sovrintendono alla trasformazione dei luoghi nei quali viviamo. In filigrana, quasi tutte queste rappresentazioni sottendono concetti diretti a rendere permanenti forme di distanziamento sociale e mirano a privilegiare la riduzione della densità delle relazioni interpersonali. Così l’idea di città si trasforma, abbandonando le suggestioni moderniste novecentesche dell’urbanità come luogo della vita più intensa, veloce e convulsa, tutta dedicata al progresso tecnologico.
Tuttavia, in quasi tutte queste formulazioni è presente – a volte implicita, a volte dichiarata – la volontà di rimettere in discussione la tendenza alla densificazione degli insediamenti e allo sviluppo centripeto. Tendenza che nel pensiero urbanistico degli ultimi decenni ha faticosamente conquistato consenso (e in Svizzera è stata proclamata da provvedimenti legislativi federali), come antidoto necessario allo sprawl, alla diffusione insediativa e allo spreco di territorio, che hanno caratterizzato le aree più ricche ed evolute del continente.
Una delle voci più esplicite è quella di Giovanna Borasi, neodirettrice del Centre Canadien d’Architecture (CCA) di Montreal che ha affermato – in una intervista recentemente pubblicata da espazium.ch – che «la crisi rimetterà in discussione numerosi fondamenti che configurano le città odierne, come la questione in voga della “condivisione”, ovvero della riduzione degli spazi individuali a favore degli spazi collettivi. Tutte le tipologie fondate su questa premessa saranno messe in questione. Così come la tendenza alla densificazione: è anch’essa vantaggiosa come pensiamo?».
Il tema è fondamentale e l’esito della sua diffusione nella pubblica opinione e nella cultura politica può rappresentare un vero e proprio pesante arretramento culturale.
Tutti gli esperti mettono al centro della loro riflessione la necessità di modificare la relazione tra l’uomo e la natura a favore della seconda. Ma, al di là delle formulazioni più astratte, quando si parla di insediamenti, di urbanistica e di economia, la relazione materiale tra uomo e natura si traduce essenzialmente nella relazione tra l’uomo e la terra. Una relazione che si misura con la quantità di terra che viene trasformata e infrastrutturata nel pianeta – dalla periferia del nostro villaggio fino alla foresta amazzonica – sottraendo all’agricoltura, al pascolo e al bosco enormi quantità di suolo. La questione del risparmio di suolo, dell’equilibrio tra gli insediamenti e la terra è la vera questione strutturale, dalla quale dipende il futuro e la stessa sopravvivenza delle prossime generazioni, al confronto con la quale le suggestioni di città più verdi e più lente appaiono sovrastrutturali, rappresentazioni estetiche.
La crisi pandemica ha rivelato la nostra fragilità davanti ai fenomeni naturali. Ce ne eravamo già accorti per gli uragani e gli altri disastri climatici provocati dal riscaldamento globale, che però erano eventi lontani dalle nostre case, conosciuti dalle immagini televisive. La pandemia, invece, ci ha toccato da vicino, abbiamo avuto paura. Alla consapevolezza così largamente condivisa della fragilità della nostra specie, è necessario contrapporre strategie mirate alle questioni fondamentali. Vogliamo dire che le battaglie per città più verdi e più lente vanno certamente condotte, e l’attuale condizione postpandemica può favorirne il successo, ma vanno coniugate con quelle per il risparmio di suolo, pena la loro inutilità.
Nonostante non appaia evidente, è necessario che non si producano contraddizioni tra l’obiettivo di piantare più alberi, realizzare più aree pedonali e campi gioco e piste ciclabili e servizi sociali decentrati e l’obiettivo di contenere le nuove edificazioni, riutilizzando il patrimonio esistente e i terreni inedificati nelle aree già infrastrutturate, anziché continuare ad invadere le aree verdi. Non bisogna tornare indietro, e neanche riproporre tipologie insediative già sperimentate. Lo dicevamo anche prima della pandemia: la densità insediativa e lo sviluppo centripeto non si perseguono aumentando gli indici di edificabilità, ma investendo in ricerca urbanistica e architettonica, progettando nuove morfologie abitative, che rappresentino la nostra capacità di cavalcare la condizione critica per progredire. Il contributo della ricerca universitaria, in questo senso, potrebbe essere decisivo, se torna di attualità la questione delle relazioni tra scuola e territorio.