Diciamocelo subito: è praticamente impossibile che i nostri figli, navigatori seriali sui social media, non vengano a contatto con i contenuti di odio di cui la Rete è piena. A Il caffè delle mamme, che ormai è in clima natalizio e dunque propenso a dispensare messaggi d’amore, la consapevolezza allora è che dobbiamo dare agli adolescenti gli strumenti per contrastare l’hate speech, ossia l’odio online.
Per comprendere quanto è diffuso il fenomeno, basta ricordare i risultati dello studio della Scuola universitaria di scienze applicate di Zurigo pubblicato lo scorso 23 agosto: quasi la metà degli adolescenti svizzeri si confronta regolarmente con discorsi di odio su Internet (il 12% più volte al giorno, il 16% ogni giorno e il 20% più volte alla settimana). Tra i 12-13 anni il 32% legge regolarmente commenti di questo tipo, la percentuale sale al 46% tra i 14-15enni, al 54% tra i 16-17enni e al 53% tra i 18-19enni. Per quanto riguarda le differenze regionali, i giovani nella Svizzera tedesca (47%) e francese (52%) sono più spesso confrontati con discorsi d’odio rispetto ai ticinesi (39%). Io ho chiacchierato appassionatamente della questione con la mia amica costituzionalista Marilisa D’Amico, pro-rettore dell’Università Statale di Milano e autrice del nuovo saggio La Costituzione non odia: conoscere, prevenire e contrastare l’hate speech (ed. G. Giappichelli, curato con Cecilia Siccardi) e ho fatto una diretta Instagram sull’argomento con il sociologo Cristopher Cepernich. Così ho capito che educare i nostri figli a combattere l’odio online vuol dire innanzitutto aiutarli a capire bene i meccanismi della Rete. A Il caffè delle mamme la sorpresa è notevole: noi boomers che spieghiamo qualcosa ai giovanissimi sui social sembra una contraddizione assoluta. Invece, bisogna tenere ben presente che i nativi digitali sanno sicuramente meglio di noi come postare, mettere un video su TikTok e fare una storia Instagram (che invidia!). Ma il fatto che tecnicamente siano migliori di noi, non vuol dire che abbiamo le conoscenze necessarie su quel che accade dietro le quinte, ossia su come funzionano i social. È il motivo per cui concordiamo tutti sulla necessità di illustrare almeno tre concetti-chiave.
Uno. I social media funzionano sulla base di algoritmi utili per dare impulso al traffico di contenuti, che è il business di Facebook, Twitter, Instagram, TikTok, ecc. E, come spiega bene il saggio La Costituzione non odia, la pre-condizione perché un contenuto sia in grado di migrare da un profilo all’altro e di catturare attenzione, è che sia molto carico, che abbia cioè una carica virale potente determinata dalla sua polarizzazione. In pratica, più i contenuti sono polarizzati, ossia estremi e divisivi, più funzionano bene in Rete. «Gli stati d’animo negativi, come paura, paranoia, invidia e odio si diffondono più rapidamente rispetto ai positivi – scrive Jaron Lanier, informatico e saggista, nel libro Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social (ed. Il Saggiatore) –. I post con stati d’animo negativi garantiscono un impatto maggiore, perché la reazione dell’utente è immediata». E l’algoritmo dei social li premia, favorendo il contagio nella Rete. I nostri figli, dunque, devono avere ben presente – ci diciamo a Il caffè delle mamme – che rischiano di finire in spirali di contenuti tossici, proprio perché il meccanismo di funzionamento dei social stessi li favorisce.
Due. L’odio online, come qualunque informazione sui social, si propaga attraverso le cosiddette echo chambers, ossia le camere dell’eco. L’algoritmo agevola la visione dei contenuti più consumati da te e dal network che hai costruito. Su Facebook non vedi post di persone alle quali non sei legato da amicizia. Invece TikTok, il più usato dai giovanissimi, agevola la visione di contenuti simili a quelli che hai visto. È la cosiddetta cassa di risonanza di un messaggio, per cui un contenuto iniziale giusto o sbagliato che sia, tende a richiamarne altri dello stesso tipo, che contribuiranno sempre più ad amplificare una visione univoca ed acritica su quell’argomento. È fondamentale, dunque, che i nostri figli lo capiscano bene: non è che tutti pensano la stessa cosa, semplicemente un determinato tipo di messaggio ne richiama altri dello stesso tipo. È un circolo vizioso che va interrotto, andando a cercare chi la pensa (anche) diversamente.
Tre. Gli adolescenti devono avere ben presente che un contenuto d’odio online può avere gli stessi effetti devastanti di ciò che viene detto fuori dai social. Le relazioni su TikTok, Instagram e Facebook sono relazioni sociali a tutti gli effetti. Fuori dalla Rete almeno bisogna metterci la faccia, online ci si può persino nascondere dietro l’anonimato. In ogni caso insultare è roba da vigliacchi e repressi. È il motivo per cui non bisogna farsi ferire da ciò che viene detto sui social, né farsi condizionare, né tantomeno essere autori stessi di hate speech.
Qualche anno fa, nel 2016, con i miei figli Clotilde ed Enea, ho visto il film d’animazione premio Oscar della Disney Zootropolis. Il cartoon racconta come, nella cittadina di Zootopia dove vivono armoniosamente docili prede e feroci predatori, a un certo punto la pecorella Bellwether, assistente-sindaco nel primo mandato di Leodor Lionearth, che la sovraccarica di lavori e la insulta, avvelena i carnivori per farli impazzire sfruttando la convinzione comune che il loro Dna sia da malvagi. Il suo intento è quello di diffondere paura e odio per arrivare a governare. Ecco, il loro uso come strumento di consenso, è la mia conclusione a Il caffè delle mamme, mi riporta un po’ al meccanismo dei social. Nel film la coniglietta-poliziotta Judy Hopps e l’amico-volpe Nick Wilde riescono a smascherare Bellwether e a farla finire in galera. Lo stesso vale per la Rete: se gli adolescenti imparano a smascherare il meccanismo dei social su come i messaggi d’odio favoriscono l’engagement (ossia like, commenti e condivisioni), come questo tam tam si propaga nascondendoti i contenuti alternativi (se non li vai a cercare) e dei danni che tutto questo può fare, ecco, forse, se imparano tutto ciò possiamo sperare in una Rete migliore. Perché saranno i nostri figli a renderla tale. Dopotutto noi passiamo le nostre giornate a educarli su come comportarsi nella vita reale, dimenticandoci spesso che gran parte della loro vita oggi è online (ma non virtuale). E vanno educati anche lì.