Spina dorsale di Asteracanthus (da Agassiz 1837)
Denti di Asteracanthus (Strophodus) (CC-by-SA, Museo di storia naturale, Neuchâtel)

 

 

Woodward e il giallo di Piltdown

Arthur Smith Woodward, 1909 (Wikimedia Commons)

Arthur Smith Woodward (1864-1944) fu uno dei maggiori paleontologi e il massimo esperto di pesci fossili del suo tempo. Nonostante 370 pubblicazioni scientifiche e diversi riconoscimenti mondiali, la sua reputazione fu tuttavia gravata dal coinvolgimento nella maggiore frode scientifica del XX secolo, quella dell’Uomo di Piltdown. Il 18 dicembre 1912, vent’anni dopo il rinvenimento in Indonesia del primo esemplare di Homo erectus (l’Uomo di Giava, risalente a 1,8 Ma) da parte di un antropologo olandese, Woodward annunciò il ritrovamento di un fossile d’importanza ancora maggiore, chiamandolo Eoanthropus dawsoni. Il nome era un omaggio a Charles Dawson, paleontologo amatoriale che gli portò un insieme di reperti composto da parti di un cranio tipicamente umano associate a una mascella tipicamente da scimmia, ossa di mammiferi (tra cui un ippopotamo) e utensili in pietra, tutti dello stesso colore bruno delle ghiaie della cava di Piltdown, nel Sussex, da cui sosteneva provenissero. 

L’ossessione derivante da questo presunto fossile, dai caratteri sempre più anomali man mano che altri ominidi venivano alla luce in diverse parti del mondo, spinse Woodward a trasferirsi presso Piltdown per continuare gli scavi una volta lasciato il museo nel 1924. Nonostante nessun altro reperto emerse dopo la morte di Dawson nel 1916, abbandonò le ricerche solo quando costretto dalla cecità. Dedicò gli ultimi anni di vita a dettare alla moglie Maud la storia dell’Uomo di Piltdown, finendo poco prima della morte sopraggiunta nel 1944. Il libro The Earliest Englishman uscì postumo nel 1948. Cinque anni dopo, nuove analisi sulle ossa ne rivelarono l’appartenenza a un orangotango (la mascella) e a un uomo (la calotta cranica), entrambi moderni. Abrase e pigmentate ad hoc erano state poi sepolte nella cava di Piltdown, insieme agli altri reperti che oggi sappiamo provenire dall’area mediterranea. Il primo sospettato della frode fu naturalmente Dawson, ritenuto un manipolatore seriale ossessionato dall’ambizione scientifica. Ma almeno altri 12 sono stati accusati, dallo stesso Woodward ad Arthur Conan Doyle (che proprio nel 1912 pubblicò The Lost World), non risparmiando neppure l’oca Chipper, frequentatrice assidua degli scavi e onnipresente nelle foto dell’epoca che, con il suo fare chiassoso, avrebbe distratto gli studiosi permettendo nel frattempo a Dawson di «condire», ad hoc le ghiaie di Piltdown.


Lo squalo della Breggia

Paleontologia - 180 milioni di anni or sono, l’Oceano della Tetide ospitava l’Asteracanthus smithwoodwardi; nel secolo scorso la Breggia ne ha riportato alla luce i resti fossili e il loro carico di enigmi
/ 03.02.2020
di Rudolf Stockar

Martedì primo ottobre 1940 piove a dirotto. Non vi è più traccia del sole d’autunno che in precedenza aveva accompagnato l’Assemblea annuale della Società geologica svizzera a Locarno. I venti partecipanti all’escursione finale percorrono le Gole della Breggia. Sotto la guida del basilese Louis Vonderschmitt, gli affioramenti dell’attuale geoparco del Mendrisiotto raccontano dell’Oceano della Tetide, di sedimenti, di acque profonde e dei loro abitanti morti e letteralmente sepolti. 

Bernhard Peyer («Azione» 44, 28.10.2019) aveva scoperto il Ticino geologico una ventina di anni prima, sedotto dal Triassico del Monte San Giorgio. Insieme agli altri partecipanti attraversa ora i successivi periodi del Mesozoico, il Giurassico e il Cretacico. Nella formazione del Rosso Ammonitico Lombardo, Vonderschmitt mostra un ciottolo immerso nell’argilla rossastra: oggi lo chiameremmo dropstone, una pietra caduta sul fondale dopo essersi staccata dalle radici di un albero alla deriva in superficie. 

Vonderschmitt è un geologo, nelle rocce cerca indizi che ne raccontino la genesi. Peyer è un paleontologo, nelle rocce cerca i fossili, che qui certo non mancano. L’impressione che gli desta la serie di strati è tale che incarica il suo assistente Emil Kuhn e il tecnico Fritz Buchser di ripercorrere i luoghi dell’escursione campionando alcuni punti. 

Presso il dropstone, lo sguardo di Kuhn cade su un oggetto più chiaro della cupa matrice del Rosso Ammonitico. Estratto, si rivela un dente di 3,3 x 1,8 centimetri, dai contorni rettangolari e una superficie lucente percorsa da fini rughe. Un dente di squalo, il primo dalla Breggia. Alla fine dello scavo, i denti in mano a Kuhn sono 19, alcuni ancora associati alla cartilagine delle mascelle. Peyer è entusiasta: sul San Giorgio i fossili di vertebrati sono pane quotidiano ma nella Breggia un’assoluta rarità. 

Torna la primavera successiva, ampliando lo scavo con piccole cariche di esplosivo. Cerca qualcosa che tuttavia non trova: una spina. I denti appartengono, infatti, al gruppo degli ibodonti, squali dominanti nel Triassico e nel Giurassico inferiore, in seguito surclassati dai neoselaci, cui appartengono le forme moderne, e infine scomparsi alla fine del Cretacico, 66 Ma (milioni di anni or sono). I sedimenti del Rosso Ammonitico risalgono al termine del Giurassico inferiore, hanno 180 Ma, e gli ibodonti erano ancora in piena forma. 

Come gli altri squali, disseminavano nell’ambiente un gran numero di denti, sostituiti di continuo e quasi inalterabili, tanto che sappiamo ben di più dell’evoluzione della loro struttura che degli squali che li avevano persi. Lo scheletro di questi ultimi è, infatti, cartilagineo e solo a tratti calcificato e pertanto, alla morte dell’animale, facilmente deteriorabile. 

Gli ibodonti avevano però un’interessante prerogativa: le due pinne dorsali erano sostenute da lunghe e robuste spine ossee, e strutture simili ornavano anche il cranio dei maschi. Sono le spine che Peyer cercò invano. Denti simili, tuttavia provenienti da altre località, erano stati descritti da Louis Agassiz già un secolo prima, nel 1838, e attribuiti a un genere di squalo che chiamò Strophodus. L’anno precedente, nel 1837, lo stesso Agassiz aveva invece descritto delle spine dorsali lunghe fino a 35 centimetri, battezzando il nuovo genere col nome Asteracanthus, dal greco astér (stella) e ácantha (spina), alludendo ai tubercoli a forma di stellina che le ricoprivano.

Agassiz manifestò il sospetto che i denti e le spine appartenessero allo stesso animale, ma la conferma giunse solo dopo la sua morte grazie alle ricerche del paleontologo amatoriale Alfred Leeds nelle cave di argilla giurassica della località inglese di Peterborough. Nella sua collezione di fossili di vertebrati marini coesistevano sia denti di tipo Strophodus sia spine di tipo Asteracanthus. Sir Arthur Smith Woodward, curatore di geologia al British Museum, pubblicò questo dato nel 1888, ritenendo che spine e denti potessero appartenere a un unico pesce per il quale mantenne il nome Asteracanthus, poiché coniato prima di Strophodus

Peyer partì da tale ipotesi anche riguardo ai denti dello squalo della Breggia, dimostrando un insolito azzardo, poiché provenire dagli stessi strati – com’era il caso dei fossili di Leeds – non implica appartenere allo stesso animale. Imputò l’assenza delle spine dorsali alla disarticolazione post mortem o all’erosione del fiume e, sulla base della diversa forma delle mascelle e delle dimensioni dei denti, nel 1946 istituì una nuova specie, Asteracanthus smithwoodwardi, dedicandola al collega morto due anni prima. Uno squalo di 2-3 metri di lunghezza, dalla dieta contrastante con il mito del pesce assassino e sanguinario. Una sessantina di denti larghi e piatti «lastricava» infatti le mascelle, formando piastre atte a frantumare gusci di invertebrati. Si trattava probabilmente di bivalvi e gasteropodi, attestati come fossili nello stesso Rosso Ammonitico, e in tal caso il nostro squalo sarebbe stato un frequentatore del fondale. Tuttavia non si può escludere che le prede fossero proprio le ammoniti, i molluschi cefalopodi che danno il nome alla formazione. Come l’attuale Nautilus, si spostavano nella colonna d’acqua superficiale che avrebbe costituito il territorio di caccia del nostro squalo. 

Le due interpretazioni non si escludono a vicenda, ed è possibile che l’Asteracanthus smithwoodwardi si muovesse tra i diversi ambienti alla ricerca di tutto ciò che fosse frantumabile dalle sue mascelle. Intanto, mentre pensiamo a un menù giurassico a base di frutti di mare, la Breggia scorre erodendo il Rosso Ammonitico e portando così alla luce nuovi protagonisti della storia dell’antico oceano. E forse un giorno nelle acque del fiume si specchierà anche un osso a forma di spina, tempestato di stelline.

Bibliografia
- Agassiz L. (1835-1844), Recherches sur les poissons fossils, Tome 3, 390 pp. + 47 tav., Neuchâtel.
- Maisey J. (1982), The anatomy and interrelationships of Mesozoic hybodont sharks, American Museum Novitates n. 2724, 1-48.
- Peyer B. (1946), Die schweizerischen Funde von Asteracanthus (Strophodus), Abh. Schweiz. Palaeont, Ges. 64, 1-101.
- Woodward A. S. (1888), On some remains of the extinct Selachian Asteracanthus from the Oxford clay of Peterboroug, Ann. Mag. Nat. Hist., Ser. 6, 2, 336-342.