Nel 1997 si decise di indire il 2 febbraio di ogni anno una «Giornata mondiale delle zone umide» per sensibilizzare la popolazione sull’importanza di quei biotopi e per fare costantemente il punto della situazione. Quest’anno il motto è: «Per la riduzione del rischio di catastrofi – Zone umide sane aiutano a far fronte agli eventi meteorologici estremi». In quella del 2016 invece si è voluto lanciare una sorta di grido d’allarme dicendo che dal 1990 a oggi oltre il 64 per cento delle zone umide di tutto il mondo è andato distrutto. La parte del leone in questa poco edificante classifica l’avrebbe fatta il continente asiatico.
Come dobbiamo interpretare questa affermazione? Nel mondo oggi si contano 2186 zone umide di importanza strategica internazionale e la trasformazione e distruzione di molte zone naturali è fonte di preoccupazione per gli ambientalisti. Alle zone umide si riconosce il pregio di fornire acqua e cibo a innumerevoli specie di piante e animali, ma soprattutto quello di salvaguardare la diversità biologica, di saper assorbire le precipitazioni abbondanti riducendo l’impatto delle inondazioni fluviali, di filtrare prodotti inquinanti o pericolosi di origine industriale rilasciati nelle acque, come i metalli pesanti, i fertilizzanti, i pesticidi.
La Convenzione di Ramsar si prefiggeva proprio di guidare l’interesse globale per la conservazione e l’uso sostenibile di questi ambienti. Tuttavia la definizione adottata per le zone umide è così ampia che praticamente tocca tutte le attività umane. Se poi pensiamo che citando gli «specchi d’acqua temporanei» possiamo includere anche le risaie, dove viene coltivata la pianta che fornisce l’alimento base per tre miliardi di persone, il discorso può portarci lontano, rischiando di confonderci. Come pure se consideriamo nell’elenco gli estuari dei fiumi e i laghi costieri nei quali si pratica la pescicoltura. Per cui è probabile che quel dato mondiale di perdita del 64 per cento in 25 anni si riferisse alle sole zone umide naturali.
Come abbiamo fatto a perdere così tanto? Semplicemente perché non le abbiamo considerate molto importanti: perché le loro dimensioni, spesso relativamente piccole, ce le hanno fatte trascurare. Ovviamente il discorso non è generalizzabile e va fatto per ogni nazione, o regione geografica, guardando anche alle realtà locali. In Svizzera le zone umide naturali si limitano per lo più alle paludi, alle torbiere, alle zone golenali, ai siti di riproduzione degli anfibi (come le rane o i rospi), oltre a qualche laghetto. Tra le cause principali di perdita e di degrado di queste zone vi sono i cambiamenti nell’uso del suolo, le bonifiche, la deforestazione, le mutate condizioni di un’agricoltura tradizionale, la crescita delle città e l’aumento delle infrastrutture, come le strade: in una parola, il progresso.
Tutto questo ha fatto sì che ambienti, una volta in comunicazione tra loro, sono stati fisicamente separati da opere dell’uomo e non per eventi naturali. Questi luoghi sono habitat di molte specie viventi utili, o addirittura necessarie, per l’intero ecosistema. L’ambiente naturale non è solo il risultato di una sovrapposizione di diversi elementi, ma è il prodotto delle loro interazioni nel corso del tempo. Per quanto riguarda le zone umide del Cantone Ticino un inventario, aggiornato al 2011, contava come di interesse nazionale: 18 torbiere, 56 paludi, 65 siti di riproduzione degli anfibi, 30 zone golenali e 131 prati secchi (in quanto sono importanti biotopi e si trovano lungo pendii molto scoscesi, ma anche lungo greti alluvionali). In tutto 300 siti da proteggere, a cui si aggiungevano nell’elenco altri 316 siti più piccoli, di puro interesse cantonale.
Appare chiaro che questi luoghi non siano proprio del tipo che interessa la nostra quotidianità. Li abbiamo spesso considerati di poco valore. Ma una svolta al riguardo è avvenuta sempre nel 1987, con l’accettazione dell’iniziativa di Rothenthurm. Sul territorio dei Cantoni di Svitto e Zugo, nella zona palustre di Rothenthurm, si trova la più grande «torbiera alta compatta» della Svizzera, visibile a vari stadi di sviluppo. In quell’area discosta, fuori dalle grandi direttrici di traffico, si voleva costruire una piazza d’armi. L’iniziativa bloccò il progetto. Da allora la Costituzione federale protegge per legge le paludi e le zone palustri di particolare bellezza e di importanza nazionale, vietando tra l’altro di costruirvi alcun impianto e di mutare la configurazione del terreno.
Le paludi sappiamo bene cosa sono: acque stagnanti, biologicamente ricche di sostanze nutrienti. Possono evolversi generando le torbiere, terreni più asciutti ma che si inzuppano d’acqua quando piove, poveri d’ossigeno e molto acidi. Tutte ospitano piante, animali e funghi parte dei quali sono vulnerabili e minacciati. Le zone golenali sono invece quelle al bordo dei fiumi, periodicamente inondate dalle piene. Sono ambienti che mutano d’aspetto, biologicamente ricchissimi. Ne stiamo riscoprendo il valore, anche perché in Svizzera si sono rilevate nelle golene 1200 specie vegetali, oltre a specie animali di grande interesse. Le zone golenali sono corridoi ecologici importanti per lo spostamento della fauna. L’arginatura e la rettificazione di fiumi e torrenti nel recente passato le avevano penalizzate. Oggi chi ha mezzi finanziari cerca di riportarle all’antico aspetto e di rivitalizzarle, non dimenticando che le golene residue sono anche luoghi attrattivi per lo svago e il tempo libero.