L’era della distrazione di massa

Iperconnessione – L’uso continuo degli smartphone sta peggiorando la nostra capacità di attenzione, di comprensione dei testi complessi e di memoria
/ 08.02.2021
di Stefania Prandi

Non è semplice renderci conto di quale sia il nostro livello di dipendenza dagli smartphone e dalle notifiche dei social network. Gli esperti continuano a metterci in guardia sui danni dell’iperconnessione che, a lungo andare, peggiora la capacità di attenzione, di comprensione di testi e problemi complessi e di memoria. Eppure quando leggiamo o sentiamo gli avvertimenti pensiamo sempre si stia parlando di qualcun altro, non di noi. In 8 secondi. Viaggio nell’era della distrazione (Il Saggiatore), la giornalista Lisa Iotti riesce a farci precipitare, fin dalle prime pagine, nell’incubo degli effetti nefasti dell’uso indiscriminato dei cellulari combinati a internet. L’autrice stessa ha sperimentato di persona cosa significhi avere oltrepassato il limite – senza riuscire a tornare indietro – quando si è trovata a un ritiro di meditazione, al quale desiderava partecipare da anni. Nove giorni di assoluto silenzio, isolata dal resto del mondo. Una pratica radicale per «pulire i pensieri». Ma già dal primo giorno Iotti si è resa conto di non potere fare a meno del suo smartphone. Trascorreva le ore seduta a gambe incrociate bramando di tenerlo in mano e la sera, nella sua stanza, lo accendeva di nascosto, «scrollando» i social e rispondendo ai messaggi. Il senso di colpa e la consapevolezza di vanificare i benefici del ritiro non sono bastati a farla smettere.

Gli smartphone ci costringono a uno stato di dipendenza, sostiene Lisa Iotti che ha iniziato la sua indagine con una puntata di Presadiretta, programma televisivo italiano condotto da Riccardo Iacona, intitolata «Iperconnessi». Da lì è partito il suo viaggio tra Stati Uniti ed Europa con interviste «alle menti che hanno fatto della Silicon Valley un centro di potere» e ai più celebri studiosi che si occupano dell’impatto cognitivo e comportamentale delle nuove tecnologie. Tra le testimonianze quella di James Wilson Williams, uno degli ex strateghi di Google, che ha abbandonato il colosso quando ha realizzato «che stava emergendo un potere nuovo, in grado di modellare le abitudini di milioni, se non miliardi di persone: non si era mai visto nulla di simile nella storia dell’umanità». Williams – uno dei tanti pentiti della Silicon Valley, altri si possono trovare nel documentario The Social Dilemma, tra i più visti negli ultimi mesi sulla piattaforma di streaming Netflix – adesso insegna Etica della tecnologia all’Università di Oxford. È convinto che «l’unico obiettivo delle grandi compagnie digitali sia tenere l’utente il più possibile connesso, perché è così che guadagnano». Più si resta dentro a un sito e più cresce il conto in banca degli azionisti. «Google, Facebook, Instagram, tutte le piattaforme fanno soldi vendendo la nostra attenzione a inserzionisti, che a loro volta cercheranno di venderci qualcosa che con buona probabilità compreremo, perché è proprio quello di cui ci hanno fatto capire che abbiamo bisogno». Gli fa eco Ramsay Brown, tra i più brillanti esperti di neuroscienze applicate alle tecnologie in circolazione: «Le applicazioni in rete utilizzano software avanzati per manipolare e controllare il comportamento di utenti e le persone non hanno modo di combattere questa guerra per l’attenzione».

Per aumentare il nostro engagement, termine che viene ripetuto da programmatori, insider, pentiti digitali – si può tradurre con «coinvolgimento», ma in inglese significa anche «fidanzamento» e «impegno» – le piattaforme fanno leva sui centri della ricompensa nel cervello, in particolare sul rilascio di dopamina, neurotrasmettitore associato alle sensazioni di benessere, che si attiva ogni volta che vediamo un like oppure la notifica di un nuovo messaggio. Patricia Marks Greenfield, docente all’Università della California, Los Angeles, molto nota negli Stati Uniti per i suoi studi sull’apprendimento umano, ha osservato con la risonanza magnetica che quando si riceve un like sotto una foto si illuminano le aree cerebrali del piacere, le stesse che si accendono quando si mangia un cibo gustoso oppure si hanno rapporti sessuali.

Erik Peper, della San Francisco State University, spiega che anche quando non arrivano allarmi dallo schermo, ci agitiamo. «Se il cellulare non squilla o non arriva nessuna notifica, lo vogliamo controllare, perché l’uso di questi apparecchi ha rinforzato certi circuiti neurali e ormai ci aspettiamo sempre delle novità, che il nostro cervello brama. Siamo in continuo stato di allerta». Non è un caso che Chris Anderson, l’ex direttore della rivista «Wired», considerata la «bibbia» di internet, abbia vietato lo smartphone ai suoi figli perché, nella scala che va dalle caramelle al crack (il derivato dalla cocaina), «lo schermo è più vicino al crack».

La sollecitazione ininterrotta causata dagli smartphone sta compromettendo la nostra capacità di concentrazione. Secondo una ricerca della Tate Gallery di Londra, quando visitiamo un museo ci fermiamo in media davanti a un’opera d’arte otto secondi. Gloria Mark, «rockstar dell’antropologia digitale», studia i comportamenti delle persone sui luoghi di lavoro: dieci anni fa passavamo dallo schermo del computer a quello dello smartphone ogni tre minuti, adesso ogni quaranta secondi. Un tempo, come dice la stessa Mark, che non serve nemmeno a cominciare un «pensiero serio». «Abbiamo dimostrato che mentre le persone sono al lavoro e stanno facendo qualcosa di importante improvvisamente si fermano, prendono in mano il telefono, e si mettono a chattare o a controllare i social. Non possono più farne a meno». Per recuperare l’attenzione ci vogliono venticinque minuti e ventisei secondi, secondo Mark, perché i nostri cervelli non sono multitasking come pensiamo. Inoltre, l’iperstimolazione è dannosa per la memoria, secondo Francis Eustache, uno dei più grandi esperti francesi della memoria e dei suoi disturbi, professore all’Università di Caen. Il vuoto mentale, indispensabile per rigenerare la mente, per riflettere e stimolare la creatività – è in quei momenti che arrivano le idee – è quasi annullato dalla distrazione perenne offerta dagli smartphone. Secondo Eustache, il problema è che viviamo in società dove «bisogna sempre andare veloci, rispondere immediatamente ai messaggi, reagire agli stimoli, avere continue sollecitazioni, e i momenti in cui non siamo dentro a questa dinamica ci sembrano buttati, come se fossero tempo perduto. Non andiamo più à la recherche du temps perdu».