Bibliografia

William J. Bond & Brian W. van Wilgen, Fire and Plants, Chapman & Hall (London-New York-Tokyo) 1996, 263 pp.

Il coleottero pirofilo Europhilus bogemanni, scala 3 mm (A. Focarile)

L’ecologia degli incendi

Biodiversità - Migliaia di vegetali dipendono dal fuoco per la loro esistenza
/ 27.11.2017
di Alessandro Focarile

«Molti alberi dalle fiammifere folgori di Giove percossi» (Boccaccio 1313-1375): così recita il primo scritto in lingua italiana che ricorda un incendio boschivo. Sono passati sette secoli da quando il sommo fiorentino parlava di fulmini e di alberi incendiati. Ma fin da epoche lontane nel tempo, gli incendi hanno sempre fatto parte dei paesaggi vegetali terrestri. E, probabilmente, hanno condizionato l’evoluzione e la diffusione degli animali erbivori, creando vaste aree prive di boschi, modificando inoltre le coperture e le strutture vegetali, per esempio le praterie e le savane. 

L’uso del fuoco è molto antico da parte dell’uomo: per cuocere il cibo, per illuminare i suoi ricoveri, e per difesa. L’uomo assistì terrorizzato agli effetti dei fulmini, e in seguito imparò a «domesticare» il fuoco. In una caverna dell’Africa (ora tropicale) è stato documentato l’uso del fuoco, grazie alla scoperta di strati carboniosi in focolari datati un milione di anni or sono (Bond & van Wilgen, 1996). In seguito si pose il problema della cura e della conservazione del fuoco. I pastori nomadi asiatici adottarono il sistema di utilizzare dei cesti foderati con l’argilla per conservare le braci. Nella Roma pre-cristiana la dea Vesta, assistita da sei vestali sacerdotesse, lo conservava in permanenza. 

Lungo le scarpate dei sentieri, che si dipartono da Robiei in alta Valle Maggia (regione del Basodino), sono tuttora evidenti numerosi livelli carboniosi, risalenti al periodo in cui il nostro antenato ticinese aveva dissodato la fascia superiore del bosco per aumentare le superfici dei pascoli. Era l’epoca di Oetzi, l’uomo dei ghiacci scoperto nel 1991, che 5400 anni or sono aveva già il necessario per accendersi un fuocherello.

Come e perché i vegetali bruciano? La fitomassa costituisce il combustibile che alimenta il fuoco, e gli effetti dell’incendio dipendono dalle sue tipologie. Può essere radente (fogliame al suolo, erbe secche), oppure di chioma distruggendo il fogliame e le parti elevate degli alberi. Infine può essere un focolaio sotterraneo nelle torbiere. In un bosco, la propensione all’incendio dipende dal tipo di alberi e dalle proprietà collettive della comunità di alberi. È ben nota la capacità di generare calore da parte dei diversi alberi. Castagni e querce bruciano con difficoltà a causa del loro contenuto di tannino. II faggio brucia bene generando calore perché il suo legno contiene fenoli che, come la resina e la cera delle conifere, sono un fuoco-stimolante. Un bosco di conifere è un serbatoio di materia infiammabile. Per contro, un bosco di latifoglie è ricco di umidità, che non facilita la combustione. Insieme con le conifere sono le erbe e la brughiera, che hanno tutte un apparato fogliare finemente diviso.

Gli incendi si possono sviluppare quando siano presenti le seguenti fonti di combustione: i fulmini (una delle principali cause naturali), le eruzioni vulcaniche e le cadute di meteoriti. Tuttavia l’uomo resta la causa principale, sia per dolo, sia involontaria. 

Dalla tundra boreale alle praterie, steppe e savane, gli incendi consumano enormi quantitativi di vegetali (fitomassa). La vegetazione terrestre è stata intaccata e manomessa fino dall’era mesozoica (180-60 milioni di anni da oggi): l’era dei dinosauri e delle ammoniti. Già durante quei tempi lontani, la combinazione letale «alberi – erbe – incendi» creò spazi aperti che facilitarono un’estesa diffusione e distribuzione degli animali erbivori: vertebrati e invertebrati. 

Testimonianze di arcaici incendi sono state scoperte su tronchi silicizzati rinvenuti nell’Arizona (USA) e in Umbria (Mancuso, 2015). L’incendio di vegetali causa numerosi fattori fisici e biologici. L’incendio di chioma può distruggere vecchie foreste di conifere, e iniziare processi di rivitalizzazione, che necessitano decenni e centinaia di anni. Per contro, nelle comunità di erbe (pascoli, praterie e savane), la ripresa vegetativa può essere molto rapida: gli effetti distruttivi possono scomparire entro breve tempo a causa dello sviluppo cespitoso, e quindi protettivo, delle radici. 

Un fenomeno che si poteva osservare fino ad alcuni decenni or sono: gli incendi volutamente provocati e controllati per fertilizzare i pascoli montani in primavera sulle prealpi lombarde e ticinesi. Con il favore di un vento favonio era tutto un rosseggiare delle pendici dei monti, facilmente visibile di notte dalla pianura lombarda. E anche in Sardegna viene tuttora appiccato il fuoco per la formazione di nuove aree pascolive ottenute grazie alla distruzione della macchia mediterranea facilmente combustibile; questo procedimento genera anche un arricchimento di potassio attraverso le ceneri.

L’incendio è parte integrante delle dinamiche naturali esistenti sulla Terra, e i biomi terrestri sono evoluti nel corso del tempo anche in funzione degli incendi ricorrenti. Questi provocano inoltre alterazioni chimiche e fisiche del suolo nella struttura del bosco a seguito delle elevate temperature. Tra gli effetti biologici post-incendio è da ricordare il caso dei conifereti che albergano una categoria di insetti coleotteri esclusivi di questo ambiente biologicamente estremo. Si tratta di alcuni caràbidi del genere Europhilus (immagine a lato) i quali frequentano, per la loro alimentazione, le aree boschive già percorse dagli incendi, dove predano la massa di insetti «arrostiti». Questi coleotteri, ottimi volatori, sono stati trovati spesso in gran numero persino sulle ceneri ancora calde e sotto le cortecce semi-carbonizzate! Essi hanno una diffusione geografica molto vasta, che copre tutta l’area forestale dell’Eurasia e del Nord America, rivelando una iper-specializzazione alimentare che esclude la concorrenza di altre specie (Lindroth, 1966).

Questi Europhilus sono stati sporadicamente trovati anche in Svizzera, considerando che gli entomologi frequentano ben di rado questi ambienti all’apparenza privi di vita. Un altro fenomeno biologico di notevole importanza è costituito dalla germinazione dei semi, stimolata dal fuoco e dal fumo. Questi fattori sono in grado di facilitare la schiusura dei semi dai loro ricettacoli molto legnosi, come lo sono le pigne (stròbili) delle conifere. In mancanza di incendi, talune specie vegetali potrebbero essere condannate all’estinzione (Bond & van Wilgen, 1966). 

Migliaia di vegetali dipendono dal fuoco per la loro esistenza. Alle nostre latitudini, è noto il caso della ginestra dei carbonai (Sarothamnus scoparius) e dell’epilobio (Epilobium angustifolium) che si insediano e colonizzano le aree percorse dagli incendi. Nella foresta boreale di conifere la maggior parte di questi eventi disastrosi è provocata dai fulmini. In Russia la foresta occupa una superficie di 730 milioni di ettari, pari a quella dell’Australia, ed è la più grande foresta continua esistente sulla Terra. Questo enorme patrimonio boschivo è suscettibile di essere insidiato dagli incendi, e ogni anno bruciano dai cinque ai dieci milioni di ettari (Goldammer, 1993). In Russia sono impiegati centinaia di aerei appositamente equipaggiati, e sono mobilitati 8mila forestali paracadutisti.

Per quanto riguarda i tipi di vegetazione boschiva e il loro differente grado di infiammabilità, e limitandoci alle regioni temperate e boreali dell’emisfero settentrionale, è opportuno considerare la loro maggiore o minore propensione agli incendi. Da Nord a Sud troviamo i seguenti ecosistemi forestali: la tundra, la foresta boreale dominata dalle conifere (Pinus, Picea, Larix), la taiga, la foresta di tipo climaticamente temperato, con dominanza di latifoglie (pioppi, salici, querce, tigli, faggi, aceri e frassini, e ontani), la steppa a graminacee nell’Asia centrale, la regione mediterranea dall’Anatolia al Portogallo e al Maghreb (Algeria, Marocco), in gran parte formata dalla macchia (maquis) e con piantagioni di Pino d’Aleppo, albero fortemente fuoco-stimolante. La foresta di latifoglie, come si è detto, non favorisce gli incendi. Nel suo ambito è necessario rilevare che, da qualche secolo, l’uomo ha sostituito la foresta primaria con estese piantagioni di abete rosso (Picea abies) e di pini nelle regioni atlantiche della Francia. Questo notevole mutamento fisionomico della foresta europea ha reso possibile una maggiore propensione per gli incendi. In tal modo vaste aree dell’Europa centrale, inclusa la Svizzera, sono state rese maggiormente suscettibili ad essere incendiate. Questi eventi hanno giustificato in epoca recente la creazione di una nuova scienza applicata e pluri-disciplinare: l’ecologia degli incendi, che coinvolge le conoscenze dei forestali, dei botanici, dei biologi, dei climatologi e degli ingegneri del territorio. Tutti accomunati dal comprendere come, dove, quando e perché si originano gli incendi e quali ne siano le conseguenze.

L’argomento «incendio» può essere trattato attualmente all’insegna dei cambiamenti a scala globale: nella modalità di pressione sul territorio da parte dell’uomo; nell’attitudine umana verso l’incendio (visto non soltanto nei suoi aspetti negativi); nelle caratteristiche degli ecosistemi forestali; cambiamenti climatici in atto per l’effetto-serra (aumento delle temperature e conseguente aumento dell’anidride carbonica CO2); alterazioni positive e negative nella composizione qualitativa e quantitativa della vegetazione boschiva, nella regione europea temperata: dalle latifoglie all’abete rosso di impianto artificiale. Infine, nella regione mediterranea, l’incendio modifica le caratteristiche della copertura vegetale. 

Un insieme di trasformazioni che generano a cascata tutta una serie di conseguenze difficilmente quantificabili, da quelle ecologiche a quelle economiche. Argomenti che ormai non interessano soltanto gli specialisti (forestali ed ecologi degli incendi), ma anche la vasta opinione pubblica. Hamburger e bistecche dipendono anche dagli incendi appiccati in Amazonia e in Indonesia. Regioni vastissime dove, al posto della foresta tropicale primaria, sono state create immense piantagioni di soia, alimento per i bovini.