Le virtù del «dolce far niente»

I benefici del «perdere tempo» sono molteplici, soprattutto per i più piccoli. Le giornate incastrate tra internet e attività continue danneggiano la creatività, l’autonomia e la crescita
/ 16.03.2020
di Stefania Prandi

Sognare a occhi aperti, perdendo tempo, dovrebbe essere parte della nostra routine. Patricia Hampl, educatrice e scrittrice, in The Art of the Wasted Day (L’arte del giorno perso), pubblicato da Viking, scrive che «il dolce far niente» andrebbe valorizzato e non demonizzato. Le grandi menti del passato indugiavano nei loro pensieri senza sensi di colpa né ansia. Come ricorda Hampl, il filosofo francese Michel de Montaigne si ritirò, a trentasette anni, in una torre, per avere intere giornate per sé. Lo scrittore Andrew Santella sostiene che rimandare le scadenze faccia bene alla creatività. In An Overdue History of Procrastination, from Leonardo and Darwin to You and Me (Una storia tardiva della procrastinazione, da Leonardo e Darwin a te e me), edito da Dey Street Books, racconta che Leonardo da Vinci faticava a rispettare le deadline.

Ad esempio, il famoso dipinto La vergine delle rocce sarebbe dovuto essere pronto in sette mesi e invece venne consegnato dopo venticinque anni. Il culto dell’efficienza di oggi è sopravvalutato: la vita diventa molto più interessante e divertente quando la si prende con calma. «In un’epoca di accelerazione, non c’è niente di più esilarante che andare piano. In un’epoca di distrazioni, non c’è niente di più lussuoso del prestare attenzione. In un’epoca di movimento costante, niente è più urgente dello stare fermi», ha detto Pico Iyer, saggista e romanziere – tra i suoi libri L’arte della quiete. Come viaggiare stando fermi (Mondadori) – in un «Ted talk» con oltre tre milioni di visite, sottotitolato in trentuno lingue.

La situazione di crisi sanitaria attuale, causata dalla diffusione del coronavirus COVID-19, sta costringendo molte e molti a rallentare. Anche i bambini, spesso coinvolti nella frenesia, con le vite iper-connesse e incastrate tra scuola e attività varie, sono portati a un cambio drastico che, nonostante tutto, può portare benefici. Secondo Nicoletta Ballabio, insegnante, ed Elena Pucci, psicologa, autrici del saggio A passo lento. Pensieri, idee, proposte per educare alla lentezza nel tempo della velocità (Il Ciliegio), «solo nella lentezza si conquistano tappe indispensabili, si consolidano stili di relazione e di vita, si costruisce, si può lasciare spazio a ciò che conta. Solo scoprendo la lentezza ci si può prendere cura, solo senza fretta si può vedere in un seme il frutto che sarà. Vale allora la pena di spendere energie e rilanciare una sfida educativa che faccia del tempo lento uno dei suoi obiettivi». Troppe attività creano un ritmo convulso: stimoli eccessivi generano caos e di riflesso confusione. Paradossalmente, riempiendo le giornate di corsi, si ottiene l’effetto contrario a quello sperato. «I bambini e le bambine troppo impegnate raggiungono un numero minore di obiettivi in autonomia, rispetto ai coetanei lasciati liberi di giocare, sperimentare e dilettarsi in attività meno strutturate e di auto esplorazione, tra cui spicca sicuramente il gioco libero da soli o con gli amici».

Le loro riflessioni si ispirano all’«educazione lenta», un apprendimento in risposta alla velocità che toglie il senso delle cose, spingendo verso una società nevrotica e spersonalizzata. Tra i loro testi di riferimento, Elogio dell’educazione lenta (La Scuola) dell’educatore Joan Domènech Fransesch e La pedagogia della lumaca, per una scuola lenta e non violenta (EMI) del maestro Gianfranco Zavalloni. «Le attività extrascolastiche positive sono quelle basate sulle esperienze. È l’esperienza in sé che serve, che dà modo di apprendere competenze. Il momento “morto” consente di capire cosa piace e porta le bambine e i bambini a mettersi in moto» spiega ad «Azione» Nicoletta Ballabio. E aggiunge: «Se non si dà spazio alla noia sicuramente i piccoli perdono la voglia di imparare e non riescono a diventare creativi. Io constato di persona a scuola quanto sia difficile gestire delle vite troppo piene. Durante l’intervallo per i miei alunni diventa quasi difficile giocare, talmente sono abituati ad avere il tempo organizzato dagli adulti». Dice Elena Pucci: «I genitori hanno una forte responsabilità perché devono filtrare le richieste dei bambini che, essendo iperstimolati, chiedono di fare molte attività. E devono anche fare i conti con le pressioni di una società competitiva: ai propri figli si vogliono offrire sempre più opportunità, ma si deve capire che è necessario pensare con la propria testa e andare in controtendenza. Non si può fare tutto e non si può essere perfetti. Una bambina di nove anni che seguo come psicologa, che ha la settimana sempre piena di cose, mi ha detto: la domenica io non voglio far niente perché ogni tanto proprio ci vuole».

Un altro compito degli adulti è aiutare a decelerare la crescita. Le pressioni sociali, dovute anche alle molte informazioni e stimoli che circolano su internet, portano all’«adultizzazione», al bruciare le tappe, che poi non sono più percorribili una volta passate. «Dall’abbigliamento, agli atteggiamenti, al tipo di musica che si ascolta, dobbiamo sapere dire: non sei abbastanza grande per questo, non è ancora il momento. Solo così possiamo ridare ai piccoli la loro vera età». Altri consigli per recuperare una dimensione più adatta ai ritmi umani, validi per adulti e piccini: riservare dei momenti, nell’arco della giornata, per raccontarsi cosa si è fatto; ritagliarsi la possibilità di fare qualcosa per bene, come ad esempio apparecchiare una bella tavola, almeno una volta la settimana; in generale soffermarsi sui piccoli impegni che costringono a rallentare. E ancora: recuperare riti che danno un ritmo, un senso alle stagioni. Le due autrici suggeriscono di rispolverare i vecchi giochi di società. «I videogame non sono dannosi, perché hanno una loro utilità, ma non possono rappresentare l’unica dimensione ludica perché costringono, di per sé, alla velocità. Crediamo che vadano recuperati gli spazi in cui si coltiva il pensiero riflessivo».