Le parole della discriminazione

Pubblicazioni - Il Rapporto annuale della Commissione federale contro il razzismo e le implicazioni linguistiche e comunicative della discriminazione
/ 06.06.2022
di Stefano Vassere

Il Rapporto sulla discriminazione razziale in Svizzera, appena pubblicato dalla Commissione federale contro il razzismo e da humanrights.ch, non ha l’ambizione del valore statistico, perché si limita a registrare le segnalazioni ai consultori del territorio. L’incremento dei casi trattati nel Rapporto (dagli 87 del 2008 ai 630 dell’anno scorso) ci può dire dunque di un aumento degli episodi o semplicemente di un aumento delle segnalazioni o delle due cose insieme. Certo è però che ci si può fare un’idea delle casistiche e dei modi di affrontarle, il che è come accostare il fenomeno con taglio qualitativo e certamente «parlante». Colpisce ad esempio molto l’emergere con sempre maggiore insistenza della scuola e dei contesti formativi come ambienti dove avvengono questi fatti e, di conseguenza, cresce l’attenzione verso i modi di insegnare l’educazione contro il razzismo e la discriminazione sociale in generale.

Un dato generale interessante riguarda le forme della discriminazione: se il primato spetta ancora alle disparità di trattamento (256 casi), sono quasi duecento le fattispecie che concernono ingiurie, ed espressioni a vario titolo linguistiche e comunicative, cui si aggiungono i casi di esternazioni e gestualità. Ecco, forse le due direzioni che varrà la pena tenere d’occhio sono quelle del mondo della formazione, che è terreno emergente ma anche milieu dove sarà più importante e forse anche agevole intervenire, e l’ambito del razzismo linguistico. Significativo è il caso della giovane svizzera nera vessata sul posto di lavoro dal suo principale con commenti razzisti sulle persone di origine africana dove risuona spesso la parola negro (nella versione in italiano, in quella in tedesco del Rapporto è N-Wort e in quella in francese nègre). Il termine è richiamato in un altro caso: quello del genitore che chiede alla maestra della scuola dell’infanzia di non far sedere suo figlio accanto a un ragazzino nero, utilizzando, anche in questo caso, quella parola (che non useremo più qui di seguito).

Altri esempi si trovano con agio nel Rapporto e nel sito humanrights.ch, molto ricco di documenti e di dati. Però il caso dell’uso di quell’appellativo può essere sottolineato nel suo carattere esemplare, cioè di che cosa si possa fare, soprattutto in contesto educativo, per affrontare in modo intelligente il razzismo. Parole come queste infatti, hanno due caratteristiche principali: sono parole che accumulano valenze storiche corrispondenti alle epoche nelle quali sono state utilizzate e sono parole che conservano questi significati anche quando la società crede di essersene liberata. Questa parola non è un semplice continuatore etimologico, la versione moderna di un termine antico, perché quell’esito è il semplice e non marcato nero. L’uso della parola in questione ci richiama tutti a epoche di violenza e sofferenza e soprattutto ci ripiomba nelle vicende della schiavitù, dei ghetti urbani, delle discriminazioni. Costituisce, al di là di tutti i tentativi di assoluzione, un insulto.

Certo, si è detto, il Rapporto è più esemplificativo che statisticamente significativo. E andrebbe integrato con numeri e approfondimenti. C’è per esempio un libro sorprendente appena uscito, curato da Derald Wing Sue e Lisa Beth Spanierman che si intitola in versione italiana Le microaggressioni. La natura invisibile della discriminazione (Milano, Raffello Cortina, 2022); è molto utile per una serie di prospettive che si affacciano solo ora al dibattito, e che però lo arricchiscono nel taglio scientifico e in quello della prassi di ogni giorno: il fatto che spesso le manifestazioni di razzismo non si «vedono»; la relativizzazione dell’importanza dell’anonimato come soluzione al problema nei social network; la rassegna critica delle obiezioni più ricorrenti («Basta con il politically correct!», «Non esagerate», «Su questo tema sei ipersensibile» ecc.); il punto di vista degli aggressori e le autoassoluzioni. Un tema, insomma, che converrà seguire.

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